Matteo Salvini incontra a Palermo il sindaco Roberto Lagalla (LaPresse) 

La Lega al bivio: Fedriga, Giorgetti e Zaia pensano al dopo Salvini

Salvatore Merlo

Il Carroccio di oggi come An di ieri. Il segretario federale appare appannato, poco lucido, e persino “pericoloso per se e per noi” agli occhi dei suoi governatori e dirigenti del nord. Gente che non gli deve quasi niente e che gli sopravviverebbe. Il leader studia le contromosse

Si telefonano, si consigliano, fanno ipotesi e parlano soprattutto di lui: Matteo Salvini. È così che da alcune settimane Giancarlo Giorgetti, Massimiliano Fedriga e Luca Zaia, ciascuno a modo suo, ciascuno con il suo carattere (e le sue furbizie) pur non fidandosi pienamente l’uno dell’altro sono diventati un gruppetto affiatato. Se non di cospiratori, quantomeno di dirigenti seriamente preoccupati per lo stato di salute della Lega e per la lucidità del segretario un tempo considerato pressoché infallibile.

 

Le loro conversazioni, che talvolta lambiscono persino gli alleati del centrodestra, ricordano quelle che in un momento simile, quasi diciassette anni fa, avvolgevano i colonnelli di Alleanza nazionale scoperti a parlare in termini ben poco lusinghieri del loro leader di allora, Gianfranco Fini. “Non possiamo permetterci di affrontare una campagna elettorale con Fini in queste condizioni”, diceva Ignazio La Russa. E Altero Matteoli: “La vera questione è chiedersi chi è Fini oggi. Dobbiamo andare e dirgli: ‘Gianfranco, svegliati!’”. In quel momento An era in forte calo di consensi, le posizioni di Fini non piacevano a gran parte del partito, e i colonnelli era a un passo dal tradimento. Fini se ne accorse, gli passo sopra come un cartepillar o uno schiacciasassi e nel giro di qualche anno anche per sfuggire a una resa dei conti interna fuse Alleanza nazionale con Forza Italia. E nacque così il caduco e sfortunato Pdl. Oggi la situazione nella Lega è del tutto simile. Come si assomigliano pure le meccaniche interne che si sono scatenate nel gruppo dirigente storico. Salvini appare appannato, poco lucido, e persino “pericoloso per se e per noi” agli occhi dei suoi governatori e dirigenti del nord. Uomini di potere e di consenso personale, gente che al segretario non deve quasi niente e che sopravviverebbe a prescindere da lui.

     

Fortemente contrari alla federazione con Forza Italia, figurarsi alla fusione dei partiti, scettici nei confronti del progetto di una Lega nazionale che hanno visto naufragare non soltanto nei sondaggi ma pure nell’ultima tornata elettorale amministrativa, Zaia, Fedriga e Giorgetti sanno bene che la Lega è davanti a un bivio. Da una parte il progetto di Salvini,  “prima l’Italia”, un rebranding e una fusione di fatto con Forza Italia che il segretario considera forse anche un sistema per allungarsi la vita politica. E dall’altro lato, invece, un ritorno al progetto settentrionalista di sempre. Quello che non ha mai fallito. Quello che ancora oggi garantisce la riserva intoccabile dei consensi leghisti. E allora che succederebbe se Salvini adasse dritto per la sua strada, quella che porta alla federazione con Silvio Berlusconi? Cosa farebbero Zaia, Fedriga e Giorgetti se vedessero cancellata la Lega per come la conoscono e per come ritengono che funzioni meglio? E’ la domanda delle domande. Il bivio.

 

Qualche giorno fa, intervistato dal Foglio, Paolo Damilano, l’imprenditore piemontese che la Lega aveva candidato a sindaco di Torino, aveva pronunciato queste parole: “Dopo i risultati di amministrative e referendum Salvini andrebbe messo in discussione, ma non accadrà. L’alternativa dentro il Carroccio è andarsene”. Scissione, dunque. Ebbene, la scissione è una di quelle eventualità che applicate al sistema leghista fanno sorridere. E l’idea sembra più che naif.

  

Eppure la parola “scissione” è stata effettivamente maneggiata, non senza cautela, anche nelle telefonate frequentissime tra Zaia, Fedriga e Giorgetti. Chi sarebbero poi gli scissionisti? Chi sarebbero i traditori? Quelli che conservano Alberto da Giussano e la parola Nord, i custodi dell’ortodossia che ancora riscuote simpatie, o il leader annebbiato che sta costruendo un nuovo partito nel disperato tentativo di rilanciarsi sul piano personale? Anche questa è una domanda (retorica) che i tre feudatari della Lega si fanno. Dandosi anche l’ovvia risposta.

 

Salvini, che ha già blindato il congresso per impedire colpi di mano, farà le liste elettorali. E ragiona su possibili contromosse. Non facili, per la verità. Dovesse riempirele liste di gente sua, punendo i governatori, se li troverebbe contro. Presto o tardi. Li premiasse, rafforzandoli, si esporrebbe a un probabile regicidio nel corso della prossima legislatura. L’unica via sicura per sopravvivere sarebbe un successo elettorale, ma quello ormai sembra il brillante futuro dietro le spalle.     

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.