Così Salvini e Conte si sono incartati da soli sull'Ucraina. L'incerto asse gialloverde
Amendola conduce mediazioni a oltranza: due giorni per sminare il terreno. La Lega in subbuglio. Giorgetti dice che mettere in discussione Draghi sarbbe "da pirla", Borghi dice che "draghi va messo in mora". I senatori grillini vogliono la prova di forza: "Altre armi a Kyiv? Sarebbe il punto di non ritorno". Intanto la Cartabia salva la sua riforma del Csm
Che su almeno uno dei due fronti il fuoco di sbarramento era solo dimostrativo, lo si è capito a metà giornata. Quando Matteo Renzi, prima di autorizzare l’interdizione di Italia viva sulla riforma del Csm, s’è accertato che un eventuale asse con Lega e FdI in commissione Giustizia del Senato non avrebbe avuto margini di manovra. Fare rumore sapendo che non si fanno danni. E in questa prospettiva vorrebbe potersi muovere anche Enzo Amendola, incaricato da Mario Draghi di bonificare, entro domani, l’altro terreno minato: quello sull’invio di armi all’Ucraina.
Con arte diplomatica, il sottosegretario ai Rapporti con l’Ue va tessendo una trama per una tregua preventiva in vista delle risoluzioni di maggioranza del 21 e 22 giugno, alla vigilia del Consiglio europeo. Sa che in entrambi i covi del malcontento, quello leghista e quello grillino, ci sono pontieri. E con quelli cerca un dialogo. Giancarlo Giorgetti, chiuso nel suo mutismo dei giorni più cupi, a chi lo consulta dice che mettere in discussione la linea atlantista del governo sarebbe “una roba da pirla”. E come lui, grosso modo, la pensano in parecchi. Ma altrettanto nutrita è la schiera di chi invece predica la linea della guerriglia contro il premier. “Noi Draghi dovremmo metterlo in mora abbastanza velocemente, visto che era stato messo lì per cambiare le regole europee e fare gli interessi del paese, e invece fa solo gli interessi suoi, e credo che questo lo abbiano capito anche i più accaniti dei nostri governisti”, sentenzia il comasco Claudio Borghi, con l’acume di chi, nella sua città di residenza, è riuscito nell’impresa di mancare il ballottaggio e di farsi scavalcare, nella competizione interna, non solo dalla lista di FdI, ma anche da quella di FI. Ma se fosse solo Borghi, uno direbbe: vabbè. E invece anche Lorenzo Fontana, vicesegretario del partito e responsabile Esteri, dice che “noi dobbiamo aprire una riflessione: nel governo se possibile, fuori dal governo se necessario”. E soprattutto, a Palazzo Madama, c’è Massimiliano Romeo a diffondere dubbi sull’opportunità di proseguire con l’inviare armi a Kyiv.
Oggi, a mezzogiorno, ci sarà la prima riunione informale coi senatori di maggioranza. Amendola vuole sondare l’aria a Palazzo Madama, in vista del vertice di maggioranza allargato anche ai deputati delle commissioni competenti in programma per domani. Sa che molto, nell’evolversi della faccenda, dipenderà dalle scelte del M5s. E sa che proprio lì, al Senato, c’è la pattuglia più scalpitante. La conferma la si è avuta del resto ieri mattina, quando Giuseppe Conte ha mandato Paola Taverna e Riccardo Ricciardi a sovrintendere a una videocall coi grillini che seguono il dossier ucraino. E nonostante Fabio Massimo Castaldo, coordinatore del comitato Esteri, abbia esordito spiegando che “non possiamo giocare con Bruxelles, in una fase così delicata a livello diplomatico e finanziario”, i senatori grillini, guidati da Gianluca Ferrara, hanno ribattuto affermando che “dire di nuovo sì all’invio di armi sarebbe per noi il punto di non ritorno”. Al che la capogruppo Mariolina Castellone ha sintetizzato: “Dobbiamo portare la posizione espressa da Conte”. Solo che, in effetti, nessuno sa quale sia. Forse perché, come dice Luigi Di Maio, questo è uno di quei passaggi in cui non si può “giocare coi forse”, esercizio in cui pure l’avvocato del popolo riesce benissimo, ma “occorre dire sì o no”. E per il ministro degli Esteri il dubbio non si porrebbe: se non altro perché al Quirinale non accetterebbero che qualcuno lo ponesse. Ma di qui a giovedì, Amendola avrà il suo bel daffare per scrivere la risoluzione che ribadisca il sostegno militare italiano a Zelensky senza indispettire più di tanto Conte e Salvini.
Magari seguendo, appunto, lo strano metodo Cartabia. Quello per cui, cioè, le intemperanze dei senatori leghisti e renziani sulla riforma del Csm, come un residuo di adrenalina e di frustrazione referendaria non smaltito, le si possono tollerare nella misura in cui non complicano l’approvazione del provvedimento. Lo si è capito ieri sera, quando si è preso atto che Lega e Iv, anche con la collaborazione di FdI, non avevano i numeri in commissione Giustizia per mettere in affanno il governo. E quindi la ministra della Giustizia ha allargato le braccia: “Che votino pure contro il nostro parere”. Domani, in ogni caso, il provvedimento arriverà in Aula.
Antifascismo per definizione
Parlare di patria è paccottiglia nostalgica e un po' fascista? Non proprio
cortocircuiti Nimby