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L'incontro Biden-Draghi ci ricorda perché solo i leader europei possono proteggere l'interesse nazionale

Claudio Cerasa

Perché l’appuntamento tra il premier italiano e il presidente americano può essere osservato in un’ottica di partnership e non di legittimazione

C’è un elemento interessante e inedito che riguarda un angolo di visuale importante relativo all’incontro che si terrà oggi a Washington tra il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Quell’elemento ha a che fare con il senso stesso della missione di Draghi in America, che non è di dare una maggiore legittimazione alla propria leadership o una maggiore centralità al proprio paese, ma è  di provare a portare avanti un’idea ambiziosa: porsi non come un interlocutore di un importante paese europeo bensì come un leader europeo, deciso a utilizzare tutto il suo potere, whatever it takes, per trasformare il proprio paese nel motore dell’Europa del futuro. La differenza può sembrare sottile ma è la chiave per capire qual è la sfida di fronte alla quale si trovano i leader europei.

 

Da un lato c’è chi considera le trasformazioni generate dalla guerra in Ucraina (più integrazione, più solidarietà, più velocità) come una possibile minaccia alla sovranità degli stati. E non stupisce che nessun populista abbia scelto di far propria l’idea (idea di Mario Draghi, idea di Emmanuel Macron, idea lanciata da Enrico Letta sul Foglio) di combattere il meccanismo dell’unanimità in Europa (per i populisti perdere il diritto di veto significa perdere il potere del ricatto). Dall’altra parte c’è invece chi considera le possibili trasformazioni generate dalla guerra in Ucraina (più sovranismo europeo, più interdipendenza tra gli stati, più strumenti per combattere le democrazie illiberali) come una straordinaria occasione per trasformare una crisi drammatica in un’opportunità strategica per emanciparsi dagli stati canaglia (ma occhio a non passare da una canaglia all’altra), per affrontare i tabù del passato (la propria dipendenza energetica) e per avvicinare le economie delle democrazie liberali (meno gas russo, in Europa, e più Gnl americano). All’interno di questa cornice, si capisce che l’Amministrazione americana osservi con interesse ciò che Draghi rappresenta oggi per l’Europa (e ciò che l’Italia rappresenta anche per il futuro dell’Europa come hub del gas del Mediterraneo).

Un analista importante intervistato la scorsa settimana dal Financial Times,  Susi Dennison, ricercatrice presso l’Ecfr di Parigi, ha notato che in Europa, in questo momento, i due leader che stanno maggiormente imprimendo ai propri paesi cambi di rotta radicali rispetto al passato sono Mario Draghi, premier italiano, e Olaf Scholz, cancelliere tedesco. Ma mentre Scholz quando parla di rapporti con la Russia tende a mettere al centro del dibattito pubblico il tema dei meccanismi, ovvero la giusta miscela da trovare fra costi e opportunità, Draghi ha scelto un approccio diverso: indicare un fine (la difesa della democrazia) ed essere disposti a utilizzare ogni mezzo (compreso l’embargo) per raggiungere quel fine (anche con le armi).

Rispetto al sostegno all’Ucraina e alla lotta contro Putin, la linea Draghi e quella Macron non sono distanti come qualcuno cercherà di far credere. Ieri il presidente francese, nel suo discorso pronunciato a Strasburgo che trovate sul Foglio, ha detto che “quando la pace tornerà sul suolo europeo (dopo, non prima, ndr) dovremo non cedere alla tentazione dell’umiliazione e dello spirito di vendetta”. E ha poi aggiunto: “Affinché questa guerra possa finire abbiamo deciso di applicare sanzioni senza precedenti mobilitando importanti mezzi militari: continueremo a farlo”. L’Europa in guerra contro Putin ha riscoperto quanto sia importante, di fronte ai grandi del mondo, muoversi da gigante e non da topolino. E se l’appuntamento tra Draghi e Biden può essere osservato in un’ottica di partnership e non di una  legittimazione, lo si deve sia a ciò che oggi Draghi rappresenta per l’Europa, ovvero uno dei leader dell’Europa che cambia, ma anche a ciò che oggi l’Europa rappresenta per l’Italia: un ombrello indispensabile per proteggere la nostra democrazia e la nostra libertà. Costi quel che costi: whatever it takes.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.