Versailles segna una svolta

Di cosa si parla quando si parla di Difesa comune europea. I colloqui tra Draghi e Macron

Valerio Valentini

Più che di un'armata unica, a Versailles si è deciso di puntare su un'industria unica. Le fusioni di Tempest e Fcas per i caccia, il ruolo di Leonardo e lo sviluppo del drone del futuro. Guerini scalpita, e il Mef sa che dovrà stanziare più fondi sul comparto. E intanto Roma e Parigi convergono sull'Aerospazio. Putin spinge tutti a fare in fretta

Sembrava ci si dovesse arrivare per forza d’inerzia, come al solito. E invece la guerra in Ucraina spingerà gli stati membri a fare più in fretta e con più determinazione. E forse ad avviare anche collaborazioni finora solo vagheggiate, come quella tra Italia e Francia in tema di Aerospazio. Il senso della Difesa comune, in fondo, sta qui: in un processo d’integrazione strategico più industriale che bellico. E’ su questo che i principali leader dell’Unione si sono ritrovati, nei colloqui di Versailles: nel convenire, cioè, che ben prima d’avere un solo esercito, dovrà esserci un’unica strategica industriale. A patto che tutti investano di più, nel settore. Liberandosi di certi tabù ideologici da pacifismo a buon mercato. 

Omologare le truppe,  fare in modo che questo esercito transnazionale risponda ai comandi di un unico generale europeo, resta un obiettivo ambizioso ma di lunga prospettiva. E questo nonostante Emmanuel Macron, nel corso del vertice ospitato nella reggia che fu del Re Sole, abbia voluto ribadire l’importanza dei piani strategici e d’intervento comuni previsti nel quadro dell’Iniziativa europea d’intervento, e cioè di quella federazione di 13 stati che dal 2017, proprio su proposta francese, s’è costituita come avanguardia del progetto di difesa comune, e nella quale l’Italia è entrata solo nel 2019, quando la sbornia sovranista del Conte I sfumò nel rinnovato euroatlantismo rossogiallo. 

Nell’immediato comunque si continuerà a parlare di ventisette diversi eserciti: che utilizzano, però, gli stessi sistemi d’arma. Mario Draghi ne è rimasto perfino sorpreso, dall’eloquenza del dato: “L’Ue ha 147 sistemi di difesa mentre gli Stati Uniti ne hanno 34”, ha ammesso ieri, al termine del summit parigino. Assai meno esterrefatto doveva essere il generale Luigi De Leverano, che è il consigliere militare di Palazzo Chigi e che da tempo predica la via della cooperazione europea. A partire dal campo dell’aviazione. Perché questa bizzarra competizione tra un consorzio franco-tedesco a cui s’è unita la Spagna con un cartello composto da Italia, Regno Unito e Svezia nella realizzazione del caccia di sesta generazione ha un che di anacronistico. E infatti in tanti addetti ai lavori scommettono da tempo sul fatto che, presto o tardi, l’Fcas sviluppato da Dassault e Airbus si fonderà col Tempest a cui è dedita Leonardo: ora la crisi russa indurrà tutti a darsi una mossa. Del che non se ne dispiacerà certo Lorenzo Guerini: il quale nel consorzio con Londra e Stoccolma era voluto entrare subito,  ma che nella collaborazione paneuropea sul nuovo “aereo del futuro” potrebbe vedere un vantaggio anche economico. Perché al momento l’Italia nel Tempest investe 20 milioni l’anno, che cresceranno di qui al 2035 fino a raggiungere i 2 miliardi; ma quelle risorse le reperisce sempre a fatica, per la consueta remora politica a investire sugli armamenti che già nell’autunno scorso avevano fatto penare non poco il ministero della Difesa per convincere il Mef a non ridurre gli stanziamenti sul settore aeronautico. 

Discorsi analoghi varranno poi anche per lo sviluppo del drone europeo. Qui in realtà la cooperazione è a uno stato più avanzato, specie sul modello EuroMale, che garantirebbe all’Unione un velivolo da remoto di grossa stazza e notevole autonomia e che solo se sviluppato a livello comunitario può produrre risultati soddisfacenti in tempi rapidi – se è vero che quando la Piaggio provò a realizzarlo in autonomia fornì al nostro esercito quelli che i vertici dell’Aeronautica definirono “otto pezzi di ferro”. Più controversa invece la convergenza sul carro armato europeo, dove l’Italia rischia di perdere un treno che è guidato da Parigi e Berlino e su cui Guerini vuole salire, consapevole dell’arretratezza del nostro comparto sui mezzi di terra, anche benedicendo, come contropartita, la vendita di Oto Melara, l’azienda che produce cannoni per le navi militari, ai tedeschi di Knds.

E però forse il settore su cui più si percepisce il senso della svolta indotta dall’aggressione di Putin a Kyiv è l’Aerospazio: e cioè il campo in cui da decenni Italia e Francia si fanno la guerra. Sennonché Arianespace, avendo rotto la convenzione con la russa Soyuz, non può più lanciare i suoi missili in orbita; e Avio si ritrova privata del motore di ultimo stadio per i suoi vettori Vega, che veniva prodotto in Crimea. E insomma essendosi ritrovati entrambi a terra, i due colossi potrebbero finalmente decidersi a parlarsi, e a creare, chissà, quell’unico campione europeo che farebbe da traino per l’industria dell’intero continente sulla frontiera più avanzata del confronto bellico dei prossimi anni. Per ora una fusione resta improbabile, certo. E però, pare che le delegazioni di Draghi e Macron, a Versailles, della faccenda abbiano iniziato a parlare seriamente. Se non ora, quando?

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.