Farnesina e 007 lo avevano avvertito: "Salvini, meglio non andare in Polonia"

Simone Canettieri e Valerio Valentini

Le preoccupazioni dell'Aise e delle nostre ambasciate. Un viaggio improvvisato, tra ex fiancheggiatori di Forza Nuova e la onlus della Chaouqui, la ex lobbista di Vatileaks. Il sindaco di Przemysl e quella maglietta di Putin: come si è arrivati alla figuraccia in mondovisione del leader della Lega

“Salvini, la sua presenza non è opportuna”. A dissuadere il leader della Lega dal viaggio in Polonia per primi sono stati gli italiani. E non Wojciech Bakun, il sindaco  di Przemysl, che in diretta planetaria gli ha sventolato in faccia il passato da ultras di Vladimir Putin. Il viaggio della speranza del capo del Carroccio, unico leader mondiale in questo momento a passeggiare sul confine con l’Ucraina, ha messo in imbarazzo le ambasciate polacche, ucraine, il ministero degli Esteri e i servizi segreti italiani. In questa fase storica, con centinaia di migliaia di profughi in fuga, la nostra diplomazia sconsiglia gli arrivi se non a personale umanitario altamente qualificato. Salvini ha messo in imbarazzo anche l’Aise: il servizio di sicurezza esterno, costretto ad attivare dispositivi antisequestro come si confà all’arrivo di un leader politico all’estero. La prassi nei momenti normali, un di più da evitare in questa fase così delicata. Ma non c’è stato nulla da fare. E così Salvini è partito per la Polonia. Con una raccomandazione: di non pubblicizzare le visite pubbliche e di ridurre al minimo la delegazione al seguito (alla fine lo hanno seguito solo il deputato Luca Toccalini e l’europarlamentare  Marco Campomenosi). Il leader leghista avrebbe voluto mettere un piede a Leopoli, ma dalla nostra ambasciata in Ucraina gli è stato vivamente sconsigliato. Così è rimasto in Polonia. Con figura barbina mondiale. 

Lui, ovviamente, ha tentato subito la manovra diversiva, se l’è presa con chi, “nella sinistra italiana come in quella polacca”, alimenta inutili polemiche. L’ordine di scuderia è stato subito diramato e rilanciato: “E’ una roba da centri sociali. Un agguato di due piddini in trasferta”, ha subito twittato Claudio Borghi. Poi gli hanno spiegato, a Salvini e ai suoi più indomiti difensori, che il sindaco di Przemysl è uno dei leader di Kukiz’15, movimento di estrema destra con cui nel 2019 il M5s aveva sottoscritto un accordo per le elezioni europee. E a quel punto al leader del Carroccio non gli è rimasto che prendersela con chi gli ha organizzato il viaggio, con chi insomma non l’ha messo in guardia sui rischi politici legati all’incontro con Bakun. 

E qui sta infatti un altro dei problemi. Davanti ai quali anche Giancarlo Giorgetti fatica a non trasalire. Perché infatti tutta la trasferta sul fronte orientale è stata allestita in nome dell’improvvisazione. Prima l’approdo a Varsavia affidandosi al presidente dell’associazione umanitaria Manalive, quel Gianmarco Oddo che è collaboratore parlamentare dell’europarlamentare No Euro Antonio Rinaldi, e che nel 2016 si candidò a Roma nelle liste del candidato sindaco di Forza Nuova: insomma, non esattamente uno sherpa. Poi, per raggiungere il confine, ha chiesto supporto logistico – lui che è un ex ministro dell’Interno, lui che si sogna presidente del Consiglio – alla onlus Ripartiamo, fondata da Francesca Immacolata Chaouqui, lobbista non esattamente stimata dal ministro dello Sviluppo e finita al centro dello scandalo Vatileaks 2 e difesa all’epoca, nelle aule di tribunale, da Giulia Bongiorno, attuale responsabile Giustizia del partito. Insomma, una diplomazia di quart’ordine che non poteva che far naufragare la missione diplomatica verso una messinscena sbracata.
Il cui esito, quell’imbarazzo del capo irriso da un ignoto sindaco di una città impronunciabile che lo umilia agitandogli in faccia il suo mai rinnegato amore per Putin, piomba in Transatlantico a far impallidire i leghisti, che schivano domande e richieste di commenti. 

Chi invece non teme di esporsi al fuoco del paradosso è Stefano Lucidi, senatore del Carroccio, che a Palazzo Madama tuona pubblicamente contro il presidente della commissione Esteri, Vito Petrocelli, suo ex compagno grillino, che si rifiuta di rinunciare alla sua carica nonostante il suo indefesso filoputinismo. “Petrocelli è uno difende da sempre le posizioni di Mosca”, dice Lucidi. Riuscendo a ignorare, dunque, che quei stessi capi d’accusa pendono sulla testa del suo leader.

Il quale, nel frattempo, decide di desistere dal suo proposito più ardito: meglio non azzardare il valico del confine. E non solo per rischio di nuove contestazioni. Oltre la frontiera, agli amici di Putin non vengono riconosciute attenuanti. 
 

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