Renzi e Pd scommettono sul fallimento del Cav., ma ne temono le mosse

Valerio Valentini

Le manovre e le telefonate di Arcore, l'impossibilità di far desistere Berlusconi. Salvini venerdì proverà a scansarsi, ma farà fatica. "Temiamo che portino Silvio a schiantarsi contro un muro", dice il centrista Romani. Letta però non si fida e valuta l'uscita dall'Aula al quarto scrutinio. Ma i senatori insorgono: "Così ci umilia", dice Fedeli

Ci ridono su, ne fanno una burla. Da quando Elisa Siragusa li ha informati che dagli emissari di Arcore le telefonate arrivano col “numero privato”, ecco ora che si chiamano a turno, gli altri deputati ex grillini del gruppo Misto, con la stessa funzione che tiene nascosta l’identità del mittente: “Mi consenta, sono Silvio Berlusconi”. Ne imitano la voce, lo riducono a macchietta. Eppure, forse per il ricordo sempre vivo delle troppe volte che lo si è sottovalutato, e sottovalutandolo lo si è aiutato a vincere, al Nazareno hanno pensato che forse sarebbe il caso di disertare l’Aula, al quarto scrutinio. E questo ha fatto insorgere un manipolo di illustri senatori.

Valeria Fedeli è la più risoluta, nei conciliaboli di Palazzo Madama, a dire che no, lei proprio non ci sta. “Va bene la tattica, ma trattare dei grandi elettori come figurine non è accettabile”. Non è accettabile, cioè, quel che alcuni consiglieri di Enrico Letta hanno lasciato trapelare nei giorni scorsi: e cioè l’idea che, quando dovesse andare in scena la conta su Berlusconi, probabilmente al quarto scrutinio, tutto il centrosinistra abbandoni l’emiciclo di Montecitorio. Non partecipare al voto, dunque, per rendere evidente l’insussistenza del centrodestra di fronte alla chiamata alle armi per il  Cav., e anche per scongiurare il rischio di qualche defezione, di un sostegno rossogiallo al leader di Forza Italia. “Ma le nostre prerogative di parlamentari non possono essere menomate”, s’è impuntata Fedeli. E del resto, chi a Palazzo Madama riferisce i pensieri di Andrea Orlando, garantisce che anche il ministro del Lavoro sarebbe assai scettico sull’ipotesi della diserzione dell’Aula. Predica cautela pure Lorenzo Guerini. Il quale del resto, scherzando chissà fino a che punto, ai suoi parlamentari del correntone riformista dice di non immischiarcisi proprio, nella faccenda Berlusconi, perché quando mai dovesse farcela, l’ex premier, loro finirebbero poi tra i sospettati d’obbligo. E non è un caso che Andrea Marcucci, per il solo fatto d’aver riferito d’essere stato contattato da Arcore, s’è dovuto affrettare a smentire ciò che a lui pareva ovvio, ma ad altri assai meno: e cioè che “non voterò mai il Cav.”.

Ma al di là del gioco dei sospetti, è un altro il ragionamento che suggerisce la pazienza al ministro della Difesa. E lo si capisce quando il suo pretoriano al Senato, Alessandro Alfieri, spiega che “dobbiamo lasciare che i processi politici in atto nel centrodestra si consumino”. Che è poi la stessa convinzione che ha indotto Giovanni Toti, a ridosso dell’assemblea congiunta di Coraggio Italia di ieri,  a fare la voce grossa col suo compagno di brigata, a imporre insomma una correzione di rotta a quel Luigi Brugnaro che troppo esplicitamente aveva annunciato il sostegno dei 33 grandi elettori centristi a Mario Draghi. “Noi restiamo fedeli al Cav., che sia Salvini, in caso, ad assumersi le sue responsabilità”.

Cosa che il capo della Lega, parlando con alcuni colleghi di Pd e Italia viva, ha lasciato intendere di voler fare venerdì, rivendicando i galloni di regista della coalizione, durante il vertice dei leader del centrodestra a Villa Grande. Sempre che sia lo scenario sfarzoso dell’Appia antica quello che il Cav. userà per ufficializzare la sua candidatura al Colle. Di certo  farlo recedere non sembra nella facoltà di nessuno, al momento. E anzi, chi frequenta Arcore riporta l’umore della real casa: “Chiunque avanza un dubbio viene accompagnato alla porta”. Di lì sospetti, malumori, tensioni. “Noi non abbiamo affatto dimenticato la nostra storia e i nostri debiti col Cav.”, dice il totiano Paolo Romani. “Ma è proprio perché a Silvio vogliamo bene che non vorremmo che chi lo consiglia di tirare dritto lo portasse a schiantarsi contro un muro”.

Che è poi, forse, ciò che anche Matteo Renzi, e con lui un pezzo del Pd, spera. Che insomma l’illusione duri, che persista l’ambizione: così che poi la bocciatura inneschi l’implosione di FI e del centrodestra, e apra davvero i giochi per quel che verrebbe dopo. “Draghi? Se salta Berlusconi, resta la strada obbligata per noi”, sibilano i leghisti. Quasi che insomma i giochi veri potranno iniziare solo dopo il fallimento della missione impossibile promossa da Arcore. Quasi che l’incognita del Cav. possa aprire una fase nuova proprio come in questo momento blocca ogni prospettiva. Minaccia e opportunità, spauracchio e goduria. Sempre che davvero finisca nel nulla. “Perché i deputati del Misto con cui io parlo –  ha confessato Bruno Tabacci, gran conoscitore di anime perse in Parlamento – mi dicono che per evitare ogni rischio  conviene votare subito Mattarella”. Meglio non indurli in tentazione. Specie se il tentatore si chiama Berlusconi. Che poi è forse la stessa premura che muove Letta a valutare l’uscita in blocco dall’Aula al quarto scrutinio. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.