l'intervento

La crisi dei partiti colpisce le fondamenta della democrazia

Paolo Cirino Pomicino

La decadenza della politica non è esclusività di questa legislatura ma ha radici lontane che risalgono all'inizio della seconda Repubblica.

La diciottesima legislatura, quella iniziata con le elezioni del 2018, rischia di passare come quella del crepuscolo democratico della Repubblica. Gli indizi sono tanti, e molti sono presenti da troppi anni per poterli definire ancora solo indizi. Quella fondata il 2 giugno del 1946 è stata sempre una Repubblica parlamentare figlia di una democrazia rappresentativa giunta dopo 20 anni di oscurantismo autoritario. Sin dalla nascita quella Repubblica aveva alcune caratteristiche del tutto nuove rispetto alla storia politica precedente del paese, oltre, naturalmente, alla fine della monarchia.

Il suffragio universale, con il voto femminile per la prima volta, chiamava tutti gli italiani a scegliere la classe dirigente cui affidare le sorti di un paese largamente arretrato e stremato dagli orrori di una lunga e feroce guerra mondiale, conclusasi con milioni di morti e finanche con una breve e disperante guerra civile. La classe dirigente scelta dal paese, pur nella profonda diversità tra i partiti e in un quadro internazionale con due blocchi contrapposti sul piano culturale, politico ed economico, fu capace di ricostruire il paese e con esso radicare nel profondo un diffuso sentimento democratico.
Molti tentarono di insidiare negli anni quel sentimento, spesso anche con input internazionali, fino a quando una scheggia impazzita della sinistra comunista non si palesò con la sua utopia rivoluzionaria, scendendo in una lotta armata nel folle tentativo di modificare il quadro democratico della Repubblica. Le Brigate rosse lasciarono sul campo molte vite di servitori dello stato, di intellettuali, di giornalisti e di politici (prevalentemente democristiani) ma i partiti seppero tenere la barra dritta e sconfissero questo tentativo autoritario unitamente allo stragismo di destra, senza che l’assetto democratico del paese ne soffrisse più di tanto. Questo fu il primo palese tentativo di modificare il quadro politico che gli italiani si erano dati nel biennio 1946-48.

Il secondo tentativo invece, tre anni dopo la caduta del muro di Berlino e dopo il crollo del comunismo internazionale, riuscì secondo modalità più volte descritte e che a distanza di quasi trent’anni non possono che essere affidate agli storici. Fu così che nel biennio 1992-’94 iniziò la cosiddetta seconda Repubblica, nella quale emerse subito un dato comune, quello dell’azzeramento di ogni cultura politica. Quei partiti che avevano costruito la democrazia repubblicana nel lontano 1946, blindandola con la vittoria del 1948 e dando al paese quel senso dell’appartenenza che sconfisse ogni tentativo autoritario, improvvisamente non c’erano più. Poteri nuovi si affacciarono, molti di questi non sottoposti al controllo elettorale, mentre i partiti sostituirono ogni proprio riferimento culturale con il più becero e assoluto personalismo, avviando così una lenta ma progressiva decadenza  politica ed economica del paese.

Chi prometteva stabilità ha cambiato in 27 anni 16 governi e, cosa ancora più grave, ben sette volte la maggioranza parlamentare, con tutto il corredo di incertezze che ne segue. Nel contempo il reclutamento della classe dirigente non ha più visto al centro l’elettore, ma il capo di ogni partito che con liste bloccate e collegi uninominali ha deciso chi doveva essere eletto. Una scelta cortigiana, insomma, che in cinque lustri non è riuscita a dare al paese, come avviene sempre quando vince la cortigianeria, una classe dirigente all’altezza e men che meno una visione delle nuove sfide che si profilavano all’orizzonte nazionale e internazionale. Il mantra che veniva raccontato era che il paese aveva bisogno di partiti “leggeri” mentre autorevoli opinionisti facevano il controcanto criticando “le maledette identità”. Siamo  riusciti così a creare un sistema di partiti culturalmente anonimi e fortemente personalizzati violando  anche l’articolo 49 della Costituzione che prevede, per l’appunto, che i partiti adottino nella propria organizzazione il metodo democratico. Sarebbe stato davvero difficile fare peggio.
E infatti abbiamo avuto 25 anni di sostanziale stagnazione economica, con il raddoppio della povertà e del tasso di disoccupazione, abbiamo pensato di internazionalizzare la nostra economia vendendo eccellenze creditizie, manifatturiere e di servizi senza alcuna reciprocità scivolando così in una altrettanto lenta subalternità internazionale.

Il nostro non è un catastrofismo di maniera, ma è solo l’elenco di cose accadute prima della diciottesima legislatura, quella attualmente in vita, che sta solo raccogliendo tutto ciò che è stato seminato, a cominciare dalla grave decadenza della nostra democrazia parlamentare. Questo Parlamento, nato con il grande successo del Movimento 5 stelle, ha infatti certificato per tabulas il disastro annunciato. In tre anni ci sono stati tre governi con tre maggioranze parlamentari, diverse l’una dall’altra. E le Camere non hanno ritenuto che nessuno dei suoi membri potesse guidare il governo, spingendo così il presidente della Repubblica a dare il mandato prima a un ignoto e simpatico professore universitario, Giuseppe Conte, e poi all’ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. In nessuna democrazia parlamentare del mondo è accaduto qualcosa di simile e ciò nonostante c’è qualcuno che vanta il merito di aver portato un altro non parlamentare alla guida del governo.

D’altro canto il male fu all’origine, quando la seconda Repubblica nacque con il governo Ciampi, alla guida della famosa macchina da guerra di Achille Occhetto, che fece sciogliere a Scalfaro le Camere nonostante ci fosse una maggioranza di governo, senza chiedere il parere dei loro presidenti come previsto dalla nostra Costituzione. Quell’armata pensò di andare a bastonare e fu bastonata da un altro dilettante della politica dell’epoca, Silvio Berlusconi.

Il Parlamento nato nel 2018, in larga parte costituito da uomini e donne che non avevano mai svolto attività politica vera, si insediò al grido di “lo apriremo come una scatoletta di tonno” e in tre anni ha prodotto danni irreversibili, a cominciare dal taglio del numero dei parlamentari che ha ridotto il tasso di rappresentatività politica della nostra società nel confronto con le altre grandi democrazie europee. Questo Parlamento, però, ha fatto qualcosa di più. Prima ancora della pandemia, approvava ormai solo decreti legge, aggiungendo ai testi norme che aumentavano a dismisura il numero dei decreti attuativi, molti dei quali poi venivano emanati dopo diversi mesi. Molti altri addirittura sono stati cancellati dal governo Draghi, annullando così anche le norme primarie senza che ci fosse un quadro definitivo di ciò che era stato cancellato e di quel che era rimasto.

Ma quel che si è consolidato è la progressiva emarginazione del Parlamento. Non abbiamo mai visto nei primi 40 anni della Repubblica che un governo preparasse la legge di Bilancio (o legge Finanziaria) insieme alle delegazioni dei partiti di maggioranza. Per decenni è accaduto che i governi si confrontassero al proprio interno tra i ministri finanziari e i ministri di spesa mentre il confronto con i partiti si realizzava in Parlamento, che non a caso convocava in audizioni non formali i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali e molte istituzioni finanziarie. Oggi siamo giunti a realizzare di fatto un monocameralismo per cui la legge di Bilancio è sempre approvata in grande ritardo in un ramo, lasciando così all’altro ramo del Parlamento 48/72 ore per ratificarlo. Di fatto una vergogna costituzionale incomprensibile che allontana sempre più il Parlamento dalla vita reale del paese e i cui responsabili sono i presidenti delle due Camere e i presidenti del Consiglio che si sono succeduti, anche se questi ultimi avevano una esimente perché privi di cultura e prassi costituzionali.

Pochi hanno raccolto l’allarme arrivato nelle ultime settimane da una improvvida dichiarazione di un ministro della Repubblica che, facendo il tifo per un candidato al Quirinale, immaginava una sorta di presidenzialismo di fatto a cui probabilmente bisognerà pensare davvero, aprendo un grande dibattito prima che il Parlamento ne possa cominciare a discutere.

La grande crisi dei partiti ha prodotto una crisi politica senza precedenti nel cui baratro è caduto il primo potere dello stato, quello legislativo, trascinando con sé anche il potere esecutivo, la cui fragilità è andata crescendo fino alla presidenza di Mario Draghi, che in piccola parte l’ha attenuata. Questa crisi è avvertita non solo dagli italiani che disertano in massa le urne ma anche dai giornali stranieri e da stati alleati, oltre che da grandi consorterie finanziarie internazionali, che ormai mettono mani e piedi nelle più delicate questioni politiche nazionali, come hanno dimostrato gli editoriali dell’Economist e del Financial Times intervenuti ultimamente nelle possibili candidature alla presidenza della Repubblica. Segnali inquietanti non tanto per la sovranità nazionale quanto per l’inconsistenza dei partiti, e quindi del Parlamento, per cui, pur dichiarando tutti che il governo in carica debba concludere la legislatura che scade nel 2023, la candidatura di Mario Draghi resta in piedi grazie alla sua autorevolezza e nonostante non abbia mai avuto nella sua vita un battesimo elettorale.

Lo scollamento tra paese e istituzioni è dimostrato, infine, proprio dai sondaggi sui possibili presidenti della Repubblica che danno a tutti, cominciando dallo stesso Draghi, un consenso popolare lillipuziano, dal 17 per cento a scendere sino al 2 per cento. Il tempo si è quasi tutto consumato. O i partiti hanno un sussulto di autorevolezza e di dignità, riscoprendo cultura e democrazia, o il paese non si salva da un declino coloniale già largamente in corso.