Luciano Violante (LaPresse) 

Dialogare con le minoranze, un dovere per i partiti. Parla Violante

Annalisa Chirico

"C'è un deficit di rappresentanza che è un problema per la democrazia e riguarda tutto il mondo politico". Dall'astensione record alle amministrative ai portuali di Trieste, fino alle proteste “No green pass”, c’è un paese che ribolle senza trovare un’espressione istituzionale

"C’è un deficit di rappresentanza di cui la maggioranza deve occuparsi. Bisogna tornare a dialogare con le minoranze”: secondo il presidente della Fondazione Leonardo, Luciano Violante, tra i non detti delle elezioni amministrative più disertate di sempre, c’è una sostanziale noncuranza verso le minoranze che, per varie ragioni e a vario titolo, si sono astenute o protestano. “Oltre al non voto, e in parte dentro il non voto, c’è un’area che si aggira tra il 15 e il 20 per cento”  dice il presidente Violante al Foglio: “I No vax sono soltanto una quota di quest’area, ma l’antivaccinismo costituisce un polo attrattivo per  molte aree di disagio e di dissenso”. Dai portuali di Trieste alle proteste “No green pass” in giro per l’Italia, c’è un paese che ribolle senza trovare un’espressione istituzionale. “Esiste un difetto di rappresentanza che è un problema per la democrazia e riguarda tutto il mondo politico. Comincia con il processo di graduale statalizzazione dei partiti dopo l’assassinio di Moro; i partiti man mano che si installano nelle strutture statuali perdono il contatto con interi pezzi della società”. 

     
Lei vede il rischio di un ritorno agli anni bui della violenza e del terrore? “No, la devastazione della sede della Cgil, di marca fascista, resta un episodio isolato, non vedo il pericolo di un ricorso abituale alla violenza. Mi preoccupa invece il deficit di rappresentanza a cui forse la maggioranza dovrebbe prestare maggiore attenzione. Superata la fase elettorale, si potrebbe cominciare a occuparsene. Oltre metà degli aventi diritto non si è recata alle urne sebbene il sindaco rappresenti il livello di governo più vicino ai problemi quotidiani. A ciò si aggiunge il dissenso manifestato apertamente da almeno un 15 per cento di italiani: l’oggetto del contendere, formalmente, è il green pass ma le questioni sono più complesse e vanno al di là del semplice disagio sociale. La democrazia deve occuparsi anche di costoro; sono tutti supposti criminali, aggressori e aggressivi? Io non penso che i manifestanti riuniti in piazza del Popolo fossero tutti fascisti. Fare di tutta l’erba un fascio e dare giudizi sprezzanti su una minoranza è sbagliato. La maggioranza ha il dovere di occuparsene. Il dissenso va indagato e compreso, bisogna identificarne le ragioni, bisogna dialogare con il dissenso”.

   

I partiti attuali non lo fanno abbastanza? “Non mi sembra che la loro azione sia efficace da questo punto di vista. Quando negli anni Ottanta i gay erano una minoranza marginale, il Pci mandò qualcuno a confrontarsi con una delegazione dell’Arcigay e da quell’incontro venne fuori una mozione congressuale che includeva le loro istanze. Bisogna tornare a creare momenti di confronto con le persone in carne e ossa, con il popolo vero, esattamente come hanno fatto alcuni candidati, penso a Roberto Gualtieri a Roma; anche candidati di destra lo hanno fatto, per esempio Damilano, sia pure con minore fortuna: le presenze televisive sono state modeste; hanno preferito le visite ai mercati, nei quartieri, gli incontri dal vivo, e credo che questo abbia aiutato a ridurre, almeno un po’, l’astensione”. 

  
Quanto incide il “fattore Draghi”? Intendo dire: il premier governa e i partiti paiono come impotenti, incapaci di incidere sull’agenda di governo. “Il governo fa ciò che va fatto. Il problema riguarda il ruolo dei partiti: se avvertono la distanza,  moltiplichino gli sforzi per rinsaldare il rapporto con la società, per ascoltare il dolore delle persone. Se una parte della società sente passare i provvedimenti sulla propria testa, è necessario che i partiti scendano dal piedistallo e tornino tra la gente. Si è passati dal partito-comunità al partito dei leader che addirittura personificano l’identità dell’intera organizzazione. C’è il partito di Letta, quello di Salvini, di Meloni…  Di fronte al deficit di rappresentanza, la priorità è la ricostruzione delle comunità politiche”. 

 
Quanto incide la legge elettorale sul progressivo sfilacciamento del rapporto tra elettore ed eletto? “Incide in misura notevole. La migliore resta la legge Mattarella perché univa la rappresentanza del partito con l’identità del singolo candidato. La legge Mattarella, con la sua quota di maggioritario, obbligava a frequentare il collegio, a incontrare gli elettori, a raccoglierne le istanze, a spiegare ai cittadini cosa accadeva nelle istituzioni. Credo che quella legge, cancellato lo scorporo, potrebbe riattivare un circuito non solo elettorale con i cittadini. In ogni  caso se la maggioranza non torna a dialogare, la disillusione potrebbe trasformarsi in rancore”. 

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