Gli ipocriti del mare

Marco Minniti

L’Italia può vincere la sfida dell’immigrazione solo investendo su un cambio di strategia: costruire legalità, combattere l’illegalità. Per farlo occorrono scelte drastiche e nuove consapevolezze nella battaglia geopolitica con Turchia e Russia. Manifesto per una svolta

In questi mesi si è definitivamente dissolta un’illusione ottica: quella che ci presentava il Mediterraneo come un quadrante secondario degli assetti del mondo. Del quale ci si potesse disinteressare a livello globale. Il richiamo della realtà è stato durissimo: se tu non ti occupi del Mediterraneo è il Mediterraneo che si occupa di te. Riproponendo una straordinaria e nuova centralità, e rendendo giustizia alla visione che Fernand Braudel avanzava nel 1949 contro la teoria delle corti cinquecentesche che consideravano quel mare come interno e chiuso. Braudel si riferiva a Filippo II di Spagna, ma intuiva come il Mediterraneo fosse l’attore principale di una nuova civilizzazione, di una vicenda mondiale. Oggi il tema si ripropone. Mai come adesso, in tempi recenti, il Mediterraneo è strategico: perché nel Mediterraneo sono avvenuti cambiamenti politici epocali che solo pochi anni fa erano inimmaginabili. 


I cambiamenti hanno due nomi: Turchia e Russia. Entrambe portano a compimento sogni imperiali antichi. La presenza attiva nel Mediterraneo è sempre stata un elemento costitutivo della Russia, con gli zar prima, poi in era sovietica, infine con Putin. Con la piccola differenza che Putin ce l’ha fatta: ieri in Siria, oggi in Cirenaica. Realizzando così quel vecchio sogno, più in continuità con l’impero zarista che non con l’Urss e il Kgb. L’altro è il sogno dell’impero ottomano. Il 16 maggio 1916 venne firmato il mai amato trattato Sykes-Picot, la spartizione tra Francia e Regno Unito delle spoglie dei territori ottomani attuata con i confini tracciati con il righello, che tanti conflitti e dolore hanno inflitto al Mediterraneo. Quando si vedono confini troppo dritti c’è dietro un elemento antistorico: la storia, e il sangue, segnano confini assai frastagliati. Parafrasando l’incipit dell’Iliade, “infiniti lutti addusse agli Achei”; quel trattato fu uno dei più clamorosi errori della storia. Dopo 105 anni la Turchia compie la sua nemesi e torna protagonista centrale nel Mediterraneo.


Che di conseguenza diviene una delle aree più delicate, più divise, potenzialmente più conflittuali del pianeta. Un Mediterraneo sempre meno “mare nostrum”, sempre più esposto ad altri protagonismi. Perché questa nuova centralità? Il Mediterraneo unisce Europa e Africa, continenti le cui sorti sono destinate a incrociarsi, inevitabilmente. L’uomo può ignorare tutto ciò, ma che i destini vadano a incrociarsi non c’è dubbio alcuno. D’altro canto non sarebbe la prima volta che l’uomo ignora qualcosa che poi si realizza “in maniera quasi indipendente”. Qui abbiamo tre grandi questioni. La prima: nel Mediterraneo si specchia la grande questione energetica e delle materie prime; per l’energia tradizionale e quelle rinnovabili. Per le materie prime: c’è un nesso stretto che tiene insieme alcune parti più arretrate dell’Africa ricche di materie rare, e le aree più innovative del pianeta. C’è, in sostanza, un filo che lega Cupertino al centro dell’Africa. Il che testimonia anche la fine di un falso racconto: l’Africa non è un continente povero, ma potenzialmente ricco, spesso impoverito dalle sue classi dirigenti.

 


La seconda ragione strategica ha a che fare con l’andamento demografico del pianeta. L’Europa cresce poco o nulla, l’Africa cresce impetuosamente. Questo squilibrio va governato, non può essere subìto. Non può essere lasciato alla brutale logica della domanda e dell’offerta, in questo caso del “valore umano”. Primo perché il valore dell’umanità è un “concetto assoluto”. Secondo perché non governare lo squilibrio sarebbe una catastrofe per entrambi i continenti. Lo squilibrio demografico non può essere delegato alle “regole” odiose e inaccettabili dei trafficanti di esseri umani.

 

 

Il terzo punto riguarda la lotta al terrorismo. Oggi l’Africa è teatro e bersaglio di numerosissimi atti terroristici e contemporaneamente è diventata il principale incubatore di un nuovo terrorismo internazionale. Da Al Quaeda allo Stato Islamico nelle innumerevoli varianti autoctone. Se qualcuno avesse dubbi basta fare un ingrandimento su quanto sta avvenendo oggi in Sahel. L’Europa ha capito forse tardi che quello è il suo vero fronte meridionale. C’è una missione europea e tuttavia quell’area, quel fronte sud dell’Europa, è attraversata da una drammatica instabilità: il colpo di stato in Ciad, un altro in Mali, le tensioni in Niger, il Sudan, la Mauritania. Le fiamme passano da un paese all’altro e potremmo presto trovarci alle prese con un Sahel incendiato nel quale il terrorismo si muove nel suo elemento naturale.

 

Un quadrante strategico del pianeta. Qui si gioca un pezzo della sicurezza globale, in un mondo che proprio tra i due scenari più critici, estremo oriente e Mediterraneo, sarà sempre più polarizzato. Le mire di Russia e Turchia

 

La missione europea, che vede anche la partecipazione dell’Italia, si chiama Takuba, la spada simbolica delle tribù del deserto. Si tratta di un impegno politico e insieme militare del governo Draghi. Qui ritorna anche la questione di come siano complesse le politiche di sicurezza: quando nel 2017 vennero a Roma per firmare la pace le tre tribù del deserto, Tebu, Suleyman e Tuareg, dopo 72 ore di maratona al Viminale, non tutti compresero quanto quell’accordo fosse importante e andasse difeso. E soprattutto quanto sia stato un errore drammatico lasciarlo violare. Ora vediamo come senza quelle tribù, senza pace e cooperazione tra loro e con loro, non è possibile pensare di controllare il deserto del Sahara. Non c’è nessuna tecnologia del domani che può prescindere dalle tribù beduine del deserto.


Se questo è lo scenario torna nuovamente il tema del Mediterraneo come quadrante strategico del pianeta. Qui si gioca un pezzo della sicurezza globale. In un mondo che proprio tra i due scenari più critici, estremo oriente e Mediterraneo, sarà sempre maggiormente polarizzato. Viene meno la visione del Pacifico come prima area di tensione: abbiamo scoperto che ce n’è un’altra altrettanto o forse più complessa. Nel Mediterraneo per la forza degli attori in campo si gioca un pezzo molto più ampio di una questione regionale. Una vicenda globale.


Se questa è l’analisi ne risultano tre conseguenze. La prima: da questa nuova dimensione geopolitica del Mediterraneo l’Europa è direttamente sfidata. Sotto gli aspetti del rapporto con l’Africa e per un’altra grande questione, poiché Turchia e Russia sono, nella formula soft, due democrazie non compiute, due autocrazie nella formula hard. E’ evidente che questo impatta direttamente sulle idee fondanti delle nostre grandi democrazie. Una sfida oggi resa più acuta dalla pandemia. Tra autocrazie in cui c’è uno solo che decide (la velocità del comando), e la complessità dei sistemi democratici. L’Europa deve sentire su di sé il peso e l’importanza di questa sfida. Che non può essere persa.


E’ molto importante che ci sia una forte capacità di triangolazione fra i tre soggetti più capaci d’influenza: Germania, Francia e Italia. Partendo tuttavia da una consapevolezza: la Germania da sola, la Francia da sola e l’Italia da sola non ce la faranno. L’idea che questi tre paesi possano avere tre diverse politiche mediterranee è finita. Per sempre. Quando sono in campo Turchia e Russia c’è un problema “di taglia”: nessun singolo paese europeo può farcela, c’è bisogno dell’Europa complessivamente. E non è una sfida che può essere racchiusa nella questione dei flussi migratori; è molto più ampia e impegnativa.


Punto due: c’è un elemento di significativa novità. Gli Stati Uniti hanno concluso la fase dell’“America First”. Sono tornati protagonisti del pianeta. Naturalmente con tutte le difficolta del riadattamento: Joe Biden ha scelto di rioccuparsi del mondo sapendo però che c’è un paese profondo in cui America First è tuttora popolare. Molto. Ma il cambiamento americano è importante: consente di ricollocare la sfida che l’Europa ha nel Mediterraneo in una rinnovata visione transatlantica. Non era scontato. Mentre è evidente che in momenti chiave, su scenari chiave, abbiamo bisogno degli Stati Uniti. Il primo incontro Biden-Putin avverrà il 16 giugno a Ginevra: non nella Ue, però nel cuore dell’Europa, in un luogo simbolo del multilateralismo.


E tuttavia l’Europa deve avere la consapevolezza che per gli Usa la priorità resta il Pacifico. Nel Mediterraneo la Casa Bianca può lavorare assieme agli europei, ma il compito principale spetta a noi. Sapendo che in questo momento stanno venendo al pettine una serie di nodi lasciati irrisolti dall’esito delle Primavere arabe. Con troppa facilità si è passati dall’illusione dell’esportazione della democrazia alla successiva rapida archiviazione di quei movimenti di massa che “comunque” hanno segnato un pezzo di storia.


Guardiamo la linea di costa dal medio oriente all’Africa settentrionale: Siria, Libano, Israele, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria. Una linea di instabilità. Viene in mente “Nelle ombre del domani” il libro che Johan Huizinga dedicò all’Europa uscita dalla Prima guerra mondiale che si avviava verso il successo dei totalitarismi e delle dittature. Dalla Siria, dove tutto è cominciato, al Libano, sul punto di una rottura drammatica per la sfida di Hezbollah, all’Algeria che fa i conti con il dopo Bouteflika, per citare soltanto gli estremi geografici. Nel mezzo, il riesplodere del conflitto israelo-palestinese, ricomposto per ora da una tregua in cui è essenziale il ruolo dell’Egitto che nei prossimi giorni ospiterà al Cairo i colloqui tra Israele e Hamas. Ruolo che ci ripropone principi di geopolitica un po’ più complessi di quanto, a volte, pensiamo. L’Egitto è stato cruciale, molto più dei singoli paesi europei o dell’Europa nel suo complesso. 

 

 

Tuttavia l’esito della questione tra Israele e palestinesi ovviamente rimane aperto, con tre grandi fragilità: quella della instabilità politica di Israele, sempre alle prese con il rischio di elezioni ma con la possibilità che per la prima volta un partito arabo entri in una coalizione con il capo dell’opposizione Yair Lapid. L’attacco di Hamas avviene proprio mentre si discute di un governo israeliano senza Netanyahu e con la collaborazione di un partito arabo. Le drammatiche immagini della cittadina di Lod rendono, tuttavia, ancora più evidente la crisi strutturale di un modello di convivenza tra israeliani e arabi che, pur tra molte tensioni, sembrava inattaccabile. E’ forse il vero elemento di novità di questi difficilissimi giorni.  Seconda fragilità, quella arabo-palestinese. L’attività militare di Hamas sostituisce icasticamente l’inerzia dell’Olp di Abu Mazen: mentre questo rinvia le elezioni, quelli fanno parlare i missili. La parte intransigente e militare sfida drammaticamente la paralisi dell’ala politica per conquistare sul campo la leadership palestinese. Infine la terza fragilità, del mondo sunnita, tra i paesi che hanno firmato il “Patto di Abramo” con Israele, Emirati in testa, e il Qatar e la Turchia sostenitori di Hamas. Nota di servizio: la Turchia ritorna sempre. La Turchia è in Azerbaijan, la Turchia è in Siria, la Turchia è in Libia, la Turchia è a Gaza. Ed è la stessa Turchia membro effettivo e importante della Nato. Punto.


Dietro alla divisione sunnita c’è la principale potenza sciita, l’Iran. Che fa irrompere il conflitto israelo-palestinese sul tavolo del negoziato nucleare. Questo dice quanto le principali tensioni del mondo si specchino nel Mediterraneo. Qui c’è una chiave che entra direttamente in quel cruscotto che si chiama sicurezza del pianeta.


Non casualmente ho lasciato per ultima la Libia, dove si gioca una vicenda cruciale per l’Italia e l’Europa. Se potessimo pensare a un interesse “nazionale europeo”, magari sognando gli stati uniti d’Europa, un pezzo fondamentale di quell’interesse si giocherebbe in Libia. Così come si gioca l’interesse italiano. I tre grandi temi dell’Africa – energetico, demografico, del terrorismo – in Libia hanno la loro dimostrazione più icastica, un concentrato di tutto ciò che avviene nel resto del continente.


Eppure in queste settimane dalla Libia è giunta una buona notizia. Si è costituito per la prima volta da anni un governo unitario del paese, il governo di Abdul Hamid Dbeibah. E’ evidente che non ha risolto tutti i problemi mentre ha un compito da far tremare le vene ai polsi. Il primo impegno è portare il paese al voto entro il dicembre 2021. Non è la prima volta che la Libia d’intesa con le Nazioni Unite fissa in maniera “canonica” una data elettorale. Poi sistematicamente rinviata. Ma oggi le elezioni sono indispensabili. Non si può pensare a un consolidamento della crisi libica senza dare la parola al popolo. Oltre a una questione di democrazia c’è il tema della credibilità e della legittimazione, del processo di unificazione reale in un paese che rimane purtroppo diviso.

 

Il problema della Libia. L’imperativo categorico per l’Europa di sostenere Dbeibah e di varare un Piano organico per la ricostruzione economica, sociale e istituzionale della Libia, che coinvolga anche la Tunisia. Negoziare un nuovo accordo sul governo dei flussi migratori. L’obiettivo di cambiare il trattato di Dublino

 

Ma la strada è molto lunga. Soggetta a un triplo salto mortale. Primo: il ritiro degli eserciti stranieri. E che eserciti: Turchia e Russia. La Turchia con un accordo con il governo di Tripoli ha inviato una componente non piccola di combattenti turco-siriani, di formazione jihadista. Nelle scorse settimane il porto di Misurata è stato dato in concessione ai turchi per 99 anni. In Cirenaica la Russia non c’è direttamente. C’è la compagnia di contractor Wagner, secondo il modello Dombass già seguito da Putin nell’Est Ucraina. Si rincorrono le voci che in Cirenaica ci sia una base di Mig-29 russi: sarebbe l’incontro più ravvicinato tra forze aeree russe ed europee, nel cuore del Mediterraneo; a parte le ampiamente vigilate manovre in Estonia. Quella stessa Russia che è lord protettore della Bielorussia, protagonista del primo dirottamento aereo di una compagnia civile da parte di uno stato, per arrestare un dissidente. E, magari, Lukashenka ha utilizzato un Mig-29. 


E qui viene il punto. L’Europa che ha avuto una delle proprie ragioni costitutive nella minaccia da Est, anche dopo la caduta del Muro di Berlino, non si è accorta che quell’Est stava scivolando verso il Mediterraneo. Russia e Turchia sono due “potenze orientali”, che hanno maturato direttamente tra loro un rapporto insieme di contrapposizione e condivisione: Anzi di divisione in zone d’influenza. Quasi sempre su fronti opposti, trovano tuttavia ogni volta la possibilità di soluzione. Siria docet.


Il secondo salto: il governo di Dbeibah deve costituire un sistema di sicurezza e difesa che superi il ruolo delle milizie. Facile a dirsi, molto difficile a farsi. Il terzo è la pandemia, presente come in tutto il Nord Africa. Sostenere Dbeibah è per l’Europa un imperativo categorico. Se quel governo fallisce si apre lo spazio per la divisione definitiva della Libia in zone d’influenza, una turca e una russa. Uno scacco drammatico per tutti.


Questo, forse, ha portato alla condivisione strategica di obiettivi in Libia tra Macron e Draghi. Con l’auspicio che si recuperi il tempo perduto. Ma se questo è un interesse strategico dell’Europa, bisogna mettere in campo strumenti straordinari. In Libia. Nel Mediterraneo. In Tunisia. Quest’ultima attraversata da tensioni sempre più forti. L’Europa non può consentire che la Tunisia, in quella linea di instabilità che va dalla Siria all’Algeria possa esser la tessera che produce un gigantesco effetto domino. La Tunisia rappresenta l’unico esito democratico delle primavere arabe. Un aspetto di sostanza e insieme fortemente simbolico. L’Europa non può rinunciare a tutto questo a cuor leggero.


“Dum Bruxelles consulitur Saguntum expugnatur”. Non c’è più tempo. E’ il momento delle decisioni urgenti. Ci sono momenti della storia nei quali ci si devono assumere responsabilità. L’Europa deve varare il più rapidamente possibile un Piano organico per la ricostruzione economica, sociale e istituzionale della Libia. Un Piano che coinvolga anche la Tunisia. Un Piano che abbia l’obiettivo di mettere la Libia in condizione di utilizzare le sue importanti risorse energetiche, comprese quelle alternative. Un Piano d’intervento che affronti il tema delle condizioni di vita dei libici a partire delle nuove generazioni. Si tratta di costruire un futuro stabile di quel paese. Si tratta di fare oggi quello che la comunità internazionale non è riuscita a fare dopo l’intervento militare del 2011. Predisponendo nell’immediato un piano per la sicurezza sanitaria. Sia per quanto riguarda la cura del Covid-19 sia per la prevenzione vaccinale. Macron ha convocato un vertice sull’Africa. Molto importante. Un primo passo nella giusta direzione. Si è lì auspicato un piano europeo che mobiliti 100 miliardi. E’ la dimensione giusta. La giusta ambizione dell’Europa. L’Europa non può consentirsi le ambiguità e le disinvolture militari di Russia e Turchia, ma ha una notevole forza economica. A differenza di Russia e Turchia. Basta solo guardare alle loro fragilità interne. Questo può fare la differenza.


Si tratta di mettere in campo una prima tranche di queste risorse verso Libia e Tunisia, di questo “tesoro”, che in qualche modo guardi a quanto l’Europa ha già impegnato negli accordi con la Turchia per il controllo della rotta balcanica delle migrazioni. E’ lecito chiedersi: come si sorveglia l’utilizzo di questi fondi per l’Africa? La prima risposta è che abbiamo ora in Tunisia e Libia due governi legittimati. Soprattutto per la Libia un’opportunità straordinaria. Il rapporto deve essere innanzitutto tra governi, poi vanno messi in campo tutti i controlli della spesa; ma già solo l’idea di un piano per la Libia rafforza il governo di Tripoli. Ce n’è molto bisogno: giorni fa Dbeibah è atterrato a Bengasi come primo ministro dell’intera Libia per incontrare il parlamento della Cirenaica; le forze fedeli al generale Haftar non l’hanno fatto uscire dall’aeroporto, è dovuto tornare a Tripoli. Dunque Haftar che si considerava debole e uscito di scena, è sicuramente più debole ma non è uscito di scena. Così come non è uscito di scena il fantasma della guerra civile. 


Ed è in questo quadro che va negoziato un nuovo accordo sul governo dei flussi migratori. Fondato su un principio: costruire legalità, combattere l’illegalità. Ovvero, tutto ciò che è legale è da sostenere e incentivare; tutto quello che è illegale, e non verificabile, è da disincentivare e contrastare.


Quindi: corridoi umanitari per svuotare immediatamente i centri dei migranti. Tema non più eludibile. Un canale diretto, verso l’Europa, per chi ha diritto alla protezione internazionale, sotto l’egida delle Nazioni Unite con la gestione dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, lì presente dal 2017. Poi rimpatri volontari assistiti verso i paesi di origine, gestiti dall’Oim, l’Organizzazione mondiale per i migranti, agenzia collegata all’Onu. Il termine assistito sta a indicare che a ogni rimpatriato viene fornito un budget finanziato dall’Europa per ricominciare una vita nel paese di provenienza. Non è una missione impossibile. Tra il 2017 e l’inizio del 2018 oltre 30 mila persone sono state rimpatriate con il programma Ue-Oim. Una cifra importante anche paragonata ai rimpatri fatti dai singoli paesi europei. Infine l’Europa e l’Italia devono aprire canali per gli ingressi legali dei migranti economici.


Un piano di ricostruzione, un nuovo accordo per l’immigrazione. Entrambi comportano un forte e chiaro contrasto all’illegalità. Ci si impegna cioè a svolgere una lotta senza quartiere ai trafficanti. Su questo si gioca un pezzo fondamentale della legittimazione e credibilità della Libia a ricevere gli aiuti europei. Tutto si tiene ma neanche un mattone può venir meno.


Serve, però, la consapevolezza che l’immigrazione non è un’emergenza, è un fenomeno strutturale del pianeta. Se qualcuno avesse dubbi, alzi gli occhi per vedere ciò che succede negli Stati Uniti. Il presidente Biden ha messo a occuparsi della vicenda la sua vice Kamala Harris. La Casa Bianca, cioè, sta affrontando in prima persona il problema dei confini e delle migrazioni. Molto più complesso di un muro. Nei giorni scorsi l’Europa ha dovuto affrontare l’esplosione drammatica di Ceuta e Melilla. Ha guardato, con sgomento, le immagini dei bimbi morti sulla spiaggia di Zuara. 


Le migrazioni hanno accompagnato e accompagneranno la storia del genere umano. Si tratta di una questione, dunque, da affrontare in maniera sistemica e in rapporto con i paesi di provenienza e di transito. E’ dentro questo approccio che si deve avere l’obiettivo di cambiare il trattato di Dublino, di ricostruire e mantenere forme effettive di solidarietà nella redistribuzione. Collocare questo obiettivo dentro un progetto più ampio d’intervento nel Mediterraneo e in Africa può consentire che l’immigrazione non sia considerata un elemento di lacerazione interno all’Europa ma come una grande sfida cruciale dell’Europa.
Di fatto noi europei stiamo entrando in una stagione elettorale: in Germania a settembre, in Francia la primavera prossima. Anche per questo serve un piano per guardare all’Africa che a sua volta guarda all’Europa. Solitamente i problemi migratori, se lasciati irrisolti, indeboliscono le maggioranze di governo e danno forza alle opposizioni. Ma rafforzano i governi e le forze politiche che le migrazioni le governano e non le subiscono. 


Per la prima volta l’Europa è alle prese con una circostanza eccezionale. Un singolo paese, la Turchia, può di fatto disporre del controllo di entrambe la maggiori rotte migratorie verso il continente, quella mediterranea e quella balcanica. Non possiamo consegnare le chiavi delle nostre democrazie a nessuno.
Con questa ambizione si muove anche il nostro paese. Umanità e sicurezza non sono due parole da mettere in contrapposizione. Una democrazia che immagini di porre all’opinione pubblica la scelta tra l’una o l’altra, tra umanità e sicurezza, non è più autorevole e più solida, è più ingiusta e soprattutto più fragile. Il suo compito è conciliarle. E’ difficile, certo. Ma le democrazie esistono per questo.
 

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