tensioni al nazareno

Dove porta il "quarto d'ora barricadero" di Letta

Valerio Valentini

Il segretario del Pd rassicura Palazzo Chigi: "Tensioni momentanee". Ma il Pd inizia a mugugnare. Guerini: "Noi siamo per l'agenda Draghi". Lotti commenta i sondaggi ("Sono quelli che sono") e Franceschini tace. Quanto dura la virata a sinistra del Nazareno?

Lui che all’arte di decifrare i silenzi democristiani è stato educato fin da ragazzo, deve essere adesso combattuto su come interpretare questa strana tregua dentro il partito, se vederci insomma più conforto o più insidia, in quell’afonia di quei due capi corrente che tanto angustiarono già il suo predecessore. E così  Enrico Letta, mentre s’interroga sul mutismo di Lorenzo Guerini e Dario Franceschini, teme forse di rivedersi nell’autoritratto che fece di sé Nicola Zingaretti poco prima di dimettersi: “Un San Sebastiano che non sa da dove gli arrivano le frecce”. Il ministro della Difesa mugugna, di fronte a questa svolta a sinistra del Pd. E quando lo si interroga sulle convulsioni in atto, si limita a ribadire, con sorriso sardonico: “Noi siamo per l’agenda Draghi”.

 

E però, a sentirglielo dire, non si capisce se parli per convincere chi lo interroga o per convincersi da solo sul fatto che no, questo riposizionamento à gauche di Letta non produrrà danni. Martedì, Guerini non ha partecipato alla riunione della sua corrente. “Impegni istituzionali”. Ma ha lasciato che a esprimere un certo disagio ci pensasse il suo sodale, Luca Lotti. “I sondaggi ci preoccupano, e le trattative sulle amministrative sono andate male, come avete visto”, ha spiegato l’ex ministro ai colleghi di Base riformista. Ai quali, però, ha rinnovato il mandato della non belligeranza. E infatti la riunione di corrente s’è risolta nell’abbozzamento di un “manifesto” che verrà pubblicato a inizio giugno, e che servirà da viatico per la battaglia in vista dei congressi regionali e provinciali, da svolgersi tra giugno e dicembre. “Ma è chiaro che se si va a congresso sui territori in mezz’Italia, il risultato diventerà poi decisivo anche per indire il congresso nazionale”, si sono ripetuti i partecipanti.

 

Quanto a Franceschini, ha preferito inabissarsi, forse sapendo che la battaglia per ribadire l’identità battagliera del Pd poco s’addice al suo profilo istituzionale. Certo, a modo suo ha anche lui mostrato un piglio pugnace, ma solo per difendere certe lentezze del suo ministero della Cultura, col suo apparato di soprintendenze e autorizzazioni e divieti, che poco si confanno con l’esigenza di accelerare imposta dal Recovery plan e dal decreto Semplificazioni. “E però quando s’è trattato di agevolare le trattative sulle amministrative, non s’è fatto vivo”, sussurrano dalla segreteria. Né s’è speso più di tanto in difesa di Andrea Orlando e della sua crociata contro Confindustria, forse ritenendo poco opportuni toni e metodi usati dal collega nella dialettica col premier Mario Draghi, forse con l’aria di chi, sollevato dal suo incarico di capo delegazione nel governo, non intende evidentemente assumersi il peso di rogne che non gli appartengono più. Insomma, a fidarsi del termometro del senatore Andrea Marcucci, tra i più insofferenti rispetto alla svolta sinistrorsa del segretario, “per ora siamo ancora ai mugugni, più che alle critiche”.

 

E così Letta sta nel mezzo, sapendo che corre sul filo come ogni volta capita ai segretari del Pd. Nella sua svolta a sinistra c’è una convinzione reale, maturata nei suoi anni parigini: quella che, per dirla con le parole che lui usa, “il mondo sta cambiando direzione”, e che dunque la stagione del blairismo è tramontata, e con essa l’opportunità di dare un volto troppo moderato alla sinistra. E però s’è premurato anche di mandare dispacci più rassicuranti a chi di dovere. Per questo Draghi pare abbia preso a sbirciare i sondaggi: sa che, finché Lega, Pd, e FdI staranno lì, appaiati e immobili nelle rilevazioni del consenso, sia Matteo Salvini sia Letta continueranno ad alzare la voce, ciascuno sui temi più identitari, entrambi assaliti dalla stessa ansia di non distinguersi l’uno dall’altro, di sentirsi rimproverare dai rispettivi elettorati un eccessivo appannamento. Gli ufficiali di collegamento, quelli addetti (anche) alla diplomazia, di certo non mancano, tra il Nazareno e Palazzo Chigi. Antonio Funiciello, capo di gabinetto del premier, gli umori del corpaccione del Pd li conosce bene. Alessandro Aresu, pure lui nello staff di Draghi, è uomo di fiducia del segretario dem. Il quale, del resto, ha lasciato intendere al presidente del Consiglio che questa fase di turbolenza sarà momentanea. Che insomma, una volta rassicurata la base sulla fermezza dei valori progressisti del Pd, Letta tornerà a interpretare più fedelmente il personaggio che gli è abituale. “Qui nessuno sta pianificando la rivoluzione del proletariato, ma se stiamo al governo è per portare avanti certe istanze progressiste”, ripete il segretario.

 

Che insomma sembra avere un po' aver ribaltato l’atteggiamento che era caro al suo maestro, quel Beniamino Andreatta che, per come lo descriveva scherzosamente Roberto Ruffilli, “quando iniziava a discutere era solito avere un quarto d’ora nazi, prima di ribadire la sua natura di democristiano con venature di sinistra”. E dunque in tanti guardano l’orologio, nel Pd e a Palazzo Chigi. Si chiedono quand’è che finirà il quarto d’ora barricadero di Letta. 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.