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Draghi e gli appunti dal Quirinale

Claudio Cerasa

Perché costruire un nuovo gioco con i partiti è cruciale per evitare la fuga dalle responsabilità

Si parla molto in queste ore di Quirinale per provare a ragionare su una partita futura, che è quella che riguarda la successione di Sergio Mattarella, ma si parla poco invece in queste ore di Quirinale per provare a ragionare su una partita presente, che è quella che riguarda una serie di piccole preoccupazioni trasmesse nelle ultime ore dal Quirinale ad alcuni ministri del governo Draghi.

Le preoccupazioni quirinalizie sono di due tipi e hanno a che fare non con i risultati dell’azione del governo ma con alcune inconsuete frizioni che si avvertono da giorni nei rapporti tra l’esecutivo e  i partiti.

La prima preoccupazione è legata a un fatto preciso che ha colpito tutti i ministri e che si è manifestato giovedì in Cdm quando i membri del governo sono stati costretti ad approvare il testo di un decreto, quello sui sostegni, che avevano ricevuto il giorno stesso e che, salvo il ministro dell’Economia, nessuno aveva avuto il privilegio di consultare. Il messaggio è chiaro: fidatevi di me, si fa così e basta.

La seconda preoccupazione del Quirinale è legata a un altro fatto preciso che questa volta non si riferisce a un singolo episodio ma si riferisce a una serie di episodi ricorrenti considerati non del tutto usuali da alcuni consiglieri del presidente della Repubblica e valutati come potenzialmente rischiosi per il corretto funzionamento dell’attività di governo. La questione, solo apparentemente tecnica, è relativa al numero basso di pre consigli convocati a Palazzo Chigi per discutere in modo collegiale gli ordini del giorno e i contenuti dei successivi Consigli dei ministri. Allo stato attuale, il governo, dal 13 febbraio a oggi, ha convocato venti Consigli dei ministri ma solo in quattro casi i consigli sono stati preceduti dai pre consigli e in alcuni casi, come è avvenuto questa settimana, i pre consigli sono stati convocati senza offrire ai partecipanti un testo completo del decreto che sarebbe stato approvato il giorno dopo. Le antenne attente del Quirinale hanno dunque captato all’interno del governo non solo un problema tra alcuni ministri (Roberto Cingolani vs Dario Franceschini), non solo un problema tra alcuni partiti (Lega vs Pd), non solo alcune geometrie ancora da perfezionare (non chiedete a Draghi chi tra Brunetta e Giovannini lo ha maggiormente deluso e chi lo ha maggiormente sorpreso) ma anche alcuni primi borbottii che arrivano dai principali partiti. Partiti che una volta accettato il fatto che l’Italia si sta finalmente allontanando dalla fase della vecchia emergenza per avvicinarsi finalmente alla fase della nuova normalità non accettano di buon grado il fatto di essere trattati dal presidente del Consiglio come se la fase della vecchia emergenza fosse ancora lì.

E’ possibile che quello di Draghi sia un metodo poco negoziabile – e anche sulle nomine delle società partecipate il metodo della condivisione delle scelte con i partiti non sembra essere quello che ha in testa il premier – ed è possibile che sia anche il metodo giusto per affrontare alcuni dossier delicati come quello delle semplificazioni, dove accettare mediazioni significherebbe rinunciare alle semplificazioni. Ma è indubbio che la stagione della nuova normalità a cui il governo si sta avvicinando – “Si vede la fine della tragedia, la normalità è più vicina”, ha detto ieri il premier italiano dialogando con Ursula von der Leyen – imporrà a Draghi, e alla sua squadra di Palazzo Chigi, di rispondere a una domanda delicata: per il buon funzionamento del governo, è preferibile chiedere ogni giorno ai partiti una sorta di atto di fede (“fidatevi di me, si fa così e basta”) o è preferibile coinvolgere ancora di più i partiti che fanno parte delle larghe intese, facendoli sentire maggiormente protagonisti delle scelte del governo per evitare che il ritorno alla normalità offra il pretesto per fuggire dalle proprie responsabilità? Il futuro dell’esecutivo, e anche quello di Draghi, in fondo passa da qui: saper costruire un nuovo schema di gioco per far sì che quegli scricchiolii che si avvertono per la prima volta sullo sfondo dell’azione di governo possano improvvisamente e malauguratamente trasformarsi in un suono più simile a quello del logoramento. E’ la normalità, bellezza.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.