Il populismo non fa più paura

Contro i populisti non basta denunciare il bluff delle conversioni

Claudio Cerasa

Draghi ha accelerato la trasformazione cosmetica dei populisti e ha costretto gli anti populisti a fare i conti con una  crisi di identità. La difficoltà di fare notizia (e alleanze) al tempo delle intese europeiste

Ok, ma in che senso sdoganare? Tra le molte ragioni che fanno dell’Italia un paese interessante da osservare fuori dai nostri confini ce n’è una, decisiva, che prescinde dalla figura di Mario Draghi e che riguarda un fenomeno cruciale, che ha a che fare con l’incredibile evoluzione politica di alcuni partiti presenti nel nostro paese. I partiti in questione sono quelli a trazione populista. E l’elemento che mai come oggi merita di essere messo a fuoco, sine ira et studio, per quanto possibile, ha a che fare con un tema che rende l’Italia centrale in Europa anche su questo fronte: lo sdoganamento definitivo dei populisti.

 

 

Lo sdoganamento definitivo dei populisti è avvenuto a seguito di un percorso fatto di piccoli e grandi traumi, di piccole e grandi rimozioni, di piccole e grandi contraddizioni, di piccole e grandi abiure ed è avvenuto al termine di una traiettoria contorta e complessa, oltre che spettacolare, che ha portato in molti i casi populisti a rinnegare, in modo tanto sontuoso quanto  ridicolo, il populismo che loro stessi hanno alimentato per anni. Si potrebbe dedicare molto spazio al numero impressionante di temi che in questi mesi i populisti hanno dovuto sconfessare per evitare di risultare incompatibili con la realtà (il M5s e la Lega, da mesi, sono impegnati nel tentativo romantico di sostenere ogni azione legislativa e di governo che punti a cancellare tutto ciò che i due partiti hanno fatto durante il governo gialloverde) ma il dato vero che oggi ci interessa analizzare non ha a che fare con le cause della trasformazione dei populisti, ma con un tema più attuale e più proiettato verso il futuro: la conseguenza di avere nel nostro paese una serie di populisti, più o meno dichiarati, che non chiede più all’Italia di uscire dall’Europa, che non invoca più referendum per uscire dall’euro, che non considera più un tabù l’appartenenza ai grandi gruppi parlamentari europei, che non ha più dubbi su chi scegliere tra gli Stati Uniti e la Russia, che non ha più dubbi su dove sentirsi più a casa tra Bruxelles e Mosca e che non esita un istante, oggi, prima di schierarsi con opportunistica convinzione in difesa di Israele.

 

È possibile, come si dice, che la svolta antipopulista dei populisti sia non un fine, ovvero una convinta e reale trasformazione, ma sia più un semplice mezzo (a) per provare a mantenere ancora per un po’ il potere (è il caso del M5s) e (b) per provare a non avere più addosso in futuro lo stigma dell’impresentabilità politica (è il caso della Lega). Le ragioni possono essere le più varie e tutte tendono a convergere sull’idea che i populisti di oggi siano diversi da quelli di ieri più nella forma che nella sostanza. Ma per quanto si possa ricercare nei tratti dei populismi una qualche ragione utile per dimostrare che ciò che vediamo oggi è uguale a ciò che vedevamo ieri (da quanto tempo non succedeva di avere un partito d’opposizione a trazione populista, come Fratelli d’Italia, non eccessivamente interessato ai temi dell’antieuropeismo?) è piuttosto evidente che la cifra vera della fase politica che sta vivendo il nostro paese oggi è più o meno questa: nel 2018, l’Italia si fece conoscere in tutta Europa per essere la possibile portaerei di un nuovo e minaccioso populismo antisistema; nel 2021 l’Italia si sta facendo conoscere in tutta Europa per essere la possibile portaerei di un populismo nuovo, che pur mantenendo la sua dose di pericolosità fa meno paura di un tempo.


Le ragioni di questo capovolgimento di prospettiva, come abbiamo detto, sono molteplici. Sono legate senza dubbio al modo in cui la pandemia ha mostrato la tossicità delle soluzioni offerte dai populisti per risolvere i problemi del mondo. E sono legate senza dubbio anche al modo in cui l’Europa ha dimostrato a suon di miliardi e a suon di cooperazione che per proteggere i cittadini serve non meno ma più solidarietà tra i paesi (lo sa bene anche Boris Johnson che ha potuto vaccinare i suoi cittadini solo grazie allo spirito di cooperazione mostrato dall’Europa, che in questi mesi non ha bloccato l’esportazione di vaccini in Gran Bretagna).

 

Ma per quanto si possa essere giustamente diffidenti su alcune conversioni dei populisti (vedere il partito xenofobo di Marine Le Pen schierato in difesa di Israele non ha prezzo) lo sdoganamento è un tema che esiste, che è lì di fronte a noi e che merita di essere analizzato con qualcosa in più che una spocchiosetta scrollata di spalle.

 

A livello nazionale, lo sdoganamento può contribuire a far apparire come un fine sincero (la conversione) quello che in realtà è un semplice mezzo per avere un domani il potere pieno per fare ciò che si vuole (Borghi è ancora il responsabile economico della Lega, Orbán è ancora il punto di riferimento fortissimo della Lega in Europa). E in questo senso la presenza nel governo ultra europeista di Draghi della Lega (un partito il cui leader, al fondo, con Mario Draghi condivide solo la prima lettera del nome e l’ultima lettera del cognome) potrebbe far aumentare e non far diminuire le probabilità di ritrovarci un domani con una destra populista alla guida del paese (e la possibilità che vi possa essere un Draghi al Quirinale non rende questa opzione meno probabile, la rende semplicemente più accettabile).

 

A livello locale, invece, la trasformazione del populismo nazionalista in un populismo meno temibile rispetto a qualche tempo fa è destinata ad avere, anche qui, un riflesso non indifferente sulla traiettoria dei così detti partiti antipopulisti. Il caso del Pd, in questo senso, è eclatante. E nel caso specifico stupisce come i dirigenti del Pd non capiscano quello che milioni di elettori sembrano invece aver capito da un pezzo. Ovverosia che in una stagione in cui il Pd si trova a governare con le destre malvagie non ci si può presentare di fronte agli elettori facendo finta che la priorità assoluta nella battaglia per la conquista delle città sia quella di respingere le destre-cattive-che-ci-vogliono-portare-fuori-dall’Europa e non invece quella di respingere semplicemente tutti coloro che hanno contribuito a fare del male alle città che hanno amministrato (siamo sicuri, per capirci, che a Roma la destra, per un elettore del Pd, sia considerata un pericolo superiore rispetto al partito di Virginia Raggi?).

 

Le destre potranno dunque essere ancora brutte, sporche e cattive (e spesso lo sono) ma la verità è che l’evocazione del pericolo populista imminente oggi per i partiti antipopulisti non è più sufficiente per definire la propria identità (e non sarà neppure sufficiente per affrontare un domani i temi dolenti che riguarderanno il modo in cui si dovrà governare l’immigrazione). E denunciare il bluff della conversione dei populisti può dare molte soddisfazioni, e portare molte visualizzazioni, ma alla lunga produce l’effetto che i populisti desiderano: regalare loro l’agenda riuscendo miracolosamente a far parlare ogni giorno di loro.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.