Foto Paolo Giandotti/Ufficio Stampa Quirinale/LaPresse

Lo Stato della Repubblica

Sabino Cassese

Il 2 giugno farà 75 anni: li porta bene? E come funziona la democrazia italiana? Istituzioni (un cantiere aperto), politica, giustizia, burocrazia: dialogo tra un ottimista e un pessimista divisi su quasi tutto

Pausa di un convegno di storici, politologi e giuristi sulla storia dell’Italia repubblicana. Due studiosi si appartano per prendere un caffè in un salotto e si lanciano in giudizi sui 75 anni della Repubblica. Sono di avviso diverso. Chiamerò l’uno pessimista, l’altro ottimista.

 

Il pessimista. Ma ne valeva la pena? Una nuova costituzione, con tante promesse e uno Stato sfiancato. Il 29 agosto del 1965, Riccardo Lombardi, in un’intervista all’Espresso, raccolta da Nello Ajello, osservava che nei ministeri più importanti mancavano persino le statistiche e le rilevazioni fondamentali per la vita economica del paese e aggiungeva  “come cercare una quercia in un deserto”. La Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco) ha affidato a Maurizio Ridolfi una grossa ricerca su “Nascita, storia e memorie della Repubblica”. Sono stati pubblicati sei corposi volumi, editi dalla casa editrice Viella di Roma nel novembre del 2020. Nel leggerli, si ha l’impressione che molte delle idee e delle proposte degli anni di fondazione della Repubblica siano state tradite in questi tre quarti di secolo trascorsi.

 

L’ottimista. Noi italiani chiediamo sempre troppo al nostro sistema politico costituzionale. E abbiamo un atteggiamento piagnone. Per consolarci, bisogna fare paragoni, pensare a Trump, Bolsonaro, Johnson. Persino la Germania sembra che stia peggio di noi. L’anno scorso si magnificavano le sue capacità realizzative. John Kampfner scrisse un libro intitolato Why the Germans do it better. Notes from a Grown-up Country (Atlantic Books 2020). Invece, ora, su Die Zeit del 22 marzo 2021 si parla di “fallimento dello Stato”, della “nuova incompetenza”, di “sconcerto”, rispetto all’ incapacità dello Stato.

 

Il pessimista. I guai degli altri non mi consolano. In Italia abbiamo una classe politica malata di “short-termism”, concentrata solo sul breve termine, incapace di guardare lontano, attenta soltanto al profitto immediato a danno di progetti per il futuro, attenta solo all’illusoria forza dei sondaggi (leggendo i quali si ignorano sempre quel terzo o quei due quinti che dichiarano di non saper fare una scelta al momento). Anche quando interroga gli esperti, questa classe dirigente o non sa porre le domande giuste o non si rivolge alle persone giuste. Basta vedere come siano stati ascoltati, alla rinfusa, durante la pandemia, virologi, pneumologi, epidemiologi, biologi, clinici generali. E’ chiaro che, se non si fanno le domande giuste alle persone giuste, ognuno dà una risposta diversa.

 

L’ottimista. Io invece temo quelli che fanno programmi a lunga scadenza, che hanno “visioni”. Ricordo quello che dichiarò una volta il cancelliere tedesco Helmut Schmidt: “Se uno ha visioni va portato dal dottore”.

 

Il pessimista. Stiamo ai fatti, facciamo parlare i dati. L’astensionismo elettorale è passato da 1/10 a 1/3. Secondo l’Istat, solo l’otto per cento delle persone con più di 14 anni partecipa in qualche modo alla vita politica. Gli iscritti ai partiti sono oggi 1/8 degli iscritti del secondo dopoguerra, nonostante l’aumento della popolazione italiana. I partiti come organizzazione sociale sono in netto declino, mentre conservano tutto il loro peso come organizzazioni statali. Quindi, il tramite tra paese legale e paese reale si è indebolito. Le forze politiche hanno in maggioranza persino abbandonato la denominazione “partito” per personalizzarla. Anche gli strumenti tradizionali di formazione dell’opinione pubblica sono, da trent’anni in declino: mi riferisco alla diffusione dei giornali. E’ in corso un processo di “desocializzazione”, una inesorabile “morte del prossimo”.

 

L’ottimista. Dall’altra parte, però, fioriscono i gruppi intermedi. Sono 1.400 quelli registrati al ministero dello Sviluppo economico, 200 quelli registrati al Parlamento, 36 quelli registrati al ministero del Lavoro, 10.000 quelli registrati al Parlamento europeo, di cui 700 con sede in Italia, 200 le organizzazioni non governative, molto numerose le Onlus. C’è stato persino bisogno di adottare una legge sul terzo settore, che regola i relativi enti. Mancano – è vero – reti nazionali, che costituiscano fattori di aggregazione. Ma tutti questi sono segni di una notevole vivacità della società civile.

 

Il pessimista. Anche sulla partecipazione politica ho molte riserve, perché c’è un sovrappiù di richieste. C’è chi crede che democrazia voglia dire autogoverno del popolo. C’è chi crede che democrazia rappresentativa voglia dire che si mandano in Parlamento persone con una delega. Invece, c’è tanta poca fiducia nella democrazia che si moltiplicano i luoghi della democrazia (consigli comunali, consigli regionali, Parlamento nazionale, Parlamento europeo). La democrazia comporta che le forze politiche indichino candidati, e che l’elettorato operi una scelta tra le forze politiche e tra i candidati (ma questa seconda soltanto se sono ammesse le preferenze). In altre parole, le forze politiche concorrono per guadagnare il voto popolare, e il popolo è soltanto una giuria che proclama un vincitore. Un altro segno della sfiducia nella democrazia sta nell’abolizione, nel 2013, del finanziamento pubblico dei partiti e nella introduzione dei principi di trasparenza e democraticità e nella previsione di una contribuzione volontaria e indiretta a loro favore, con un registro iscrivendosi al quale si può accedere ai benefici previsti dalla legge.  La presentazione delle liste è compito di un numero più ristretto di persone se il partito o gruppo politico è costituito in gruppo parlamentare in entrambe le camere. Con il voto non si dà un mandato. Infatti, i mandanti non sono noti perché il voto è segreto ed è vietato il vincolo di mandato, per cui non si esprime una volontà. Il voto è solo uno strumento di autorizzazione o di legittimazione.

 

L’ottimista. Ma queste sono osservazioni troppo generali, riguardano tutte le democrazie moderne.

 

Il pessimista. Aggiungo che quasi nessuna delle democrazie moderne è così incerta come quella italiana sulla formula elettorale. Solo negli ultimi due decenni ne abbiamo avute quattro: 1994, legge maggioritaria, detta Mattarella; 2005 legge con premio di maggioranza, detta legge Calderoli; 2016 legge proporzionale corretta, detta Renzi; 2017 legge Rosato vigente, che prevede collegi uninominali e collegi proporzionali plurinominali, per 1/3 maggioritaria per 2/3 proporzionale.

 

L’ottimista. Ma questo dipende dal pluri-partitismo estremo del nostro sistema, nel quale c’è sempre bisogno di contarsi.

 

Il pessimista. Ma si accompagna con una politica improvvisata, senza programmi, dettata da schieramenti senza politiche. Inoltre, se – come sembra – tutti sono d’accordo sul fatto che le forze politiche sono lo strumento di formazione di una classe politica, perché i partiti politici non si ricostituiscono? In realtà, quelli attuali non sembrano interessati a creare una loro base. Sulla base nasce un vertice. L’esaurimento della democrazia interna dei partiti è anche dimostrato dal ricorso alle primarie aperte. I due nuovi leader di Pd e M5s – che si dicono sostenitori e promotori della democrazia nei rispettivi partiti – non sono stati eletti, ma nominati dall’alto. I sondaggi dicono che l’indice di fiducia nei partiti non è superiore al 5 per cento, mentre era di circa il 30 per cento durante Tangentopoli, e che solo il 22 per cento degli italiani è a favore del finanziamento pubblico. Aggiungo la scarsa partecipazione degli italiani al finanziamento volontario. Il due per mille non dà, complessivamente, ai partiti più di 25 milioni circa. Anche le forze politiche che chiamiamo populiste hanno dimostrato di essere molto corporative e “poltroniste” (ad esempio, in posti di alta amministrazione viene nominato personale politico, come accaduto per un ex ministro finito come presidente del Formez; un giornale romano, il 4 dicembre 2020, definiva il Comune di Roma una “agenzia di collocamento di grillini in difficoltà”).

 

L’ottimista. Nonostante tutte queste difficoltà, non può negare che la democrazia italiana sia ancora funzionante.

 

Il pessimista. Ma come funziona? Nell’ultimo decennio il Parlamento ha approvato tre volte meno leggi di quelle che approvava alla fine del secolo scorso. I membri del Parlamento hanno un tasso di scolarizzazione simile a quello dell’immediato secondo dopoguerra, mentre la scolarizzazione della società italiana è aumentata. Le camere sono organi di ratifica e correzione. I testi che producono sono ai limiti della incomprensibilità, per la quantità di rinvii ad altre norme e per la pessima scrittura. Da ultimo, tutti i poteri sembrano concentrati nel collegio informale dei capi delegazioni e persino il Consiglio dei ministri sembra ridotto ad un organo di ratifica.

 

L’ottimista. Ma altre parti del sistema funzionano. La Corte costituzionale continua a operare bene come organo di correzione. Ha operato a lungo, anche se lentamente, come fattore di cesura rispetto al fascismo. Ha preso decisioni che la classe politica non era preparata a prendere. Ha difficoltà interne, essendo organo giudicante e quindi reattivo e non proattivo. Si è indebolita per le presidenze quasi mensili. Tuttavia, ha complessivamente operato bene.

 

Il pessimista. Ha messo il dito su una piaga. L’ordine giudiziario è una struttura malthusiana di meno di 10.000 magistrati. Il Consiglio superiore della magistratura si è trasformato da organo di garanzia dell’indipendenza in organo di autogoverno. Il ministero della Giustizia, parte del potere esecutivo, è occupato dai magistrati. Le procure occupano circa il 20 per cento dei magistrati e subiscono un processo di politicizzazione endogena, intestandosi il potere di “naming and shaming”. I magistrati giudicanti arrivano sempre troppo lentamente, dimenticando che una giustizia lenta non è giustizia. Complessivamente, c’è un crescente ruolo politico della magistratura e una decrescente funzione giudiziale della stessa. La magistratura rifiuta di sottoporsi a una prova di rendimento, ma si ritiene la guardiana della moralità pubblica, nonché dei propri poteri. E non è tutto. La magistratura dà anche il cattivo esempio. Altri organi, quasi giudiziari, o amministrativi, scimmiottino i magistrati. La conseguenza è che abbiamo tanti controllori caso per caso, ma nessun organo di controllo generale che riesca a valutare complessivamente e a tenere sotto controllo, nel loro insieme, fenomeni sociali o condotte amministrative. C’è da aggiungere l’incapacità del Consiglio superiore della magistratura di individuare i giusti criteri di selezione per le nomine, in particolare negli uffici direttivi, la pessima immagine pubblica della giustizia in Italia, l’incapacità del corpo dei magistrati di autocorreggersi.

 

L’ottimista. Ma tutti gli ordinamenti moderni hanno forze frenanti o dilazionanti, che corrispondono al concetto biblico, così bene illustrato da Paolo di Tarso, del “Katechon”, il potere che tiene a freno. Queste arricchiscono la democrazia, rendendola più mite, tenendo sotto controllo la tirannide della maggioranza. Lo stesso può dirsi del pluralismo amministrativo, con le regioni.

 

Il pessimista. Anche le regioni non hanno dato buona prova, nei loro cinquant’anni di vita. Il divario Nord-Sud è aumentato. Dovevano essere enti di legislazione e hanno prodotto un nuovo accentramento amministrativo, a danno dei comuni. La presidenzializzazione le ha rese più loquaci, ma non più efficaci. Hanno dato una pessima prova nel corso della pandemia, quando si è capito che il Servizio sanitario, che doveva essere nazionale, per garantire livelli uniforme di prestazione, è ormai spaccato in venti parti.

 

L’ottimista. Ma per correggere i difetti dello Stato oggi c’è anche l’Unione europea. Il “vincolo esterno”, voluto da Alcide De Gasperi e tanto apprezzato da Guido Carli, ha portato molti benefici. Ha reso più efficiente l’esecutivo, che deve dialogare con gli altri esecutivi nazionali e ha portato a un sorta di concorrenza tra le amministrazioni, che debbono sempre compararsi con quelle straniere.

 

Il pessimista. Lei ha toccato uno dei punti dolenti, quello della burocrazia. Da essa dipendono le sorti dei cittadini e quella italiana non è particolarmente efficiente. E’ stata privata di un proprio vertice, perché l’alta amministrazione ormai dipende esclusivamente dalle forze politiche al governo. E’ stata privata dei maggiori terminali operativi: pensi all’importanza che aveva il Genio civile o alla struttura autenticamente nazionale del Servizio sanitario. Il Genio civile è stato diviso in venti regioni e il Servizio sanitario non è più nazionale, con i servizi sanitari regionali che camminano a velocità diverse; per di più, mancano gli anelli di congiunzione tra le strutture periferiche e quella nazionale. In terzo luogo, le amministrazioni sono state private lentamente della “polpa”, perché le attività più difficili, complesse e rilevanti sono state esternalizzate in organismi satelliti. La struttura amministrativa, non fa, ma “fa fare”.

 

L’ottimista. Questa parcellizzazione e disaggregazione, anche se comporta difficoltà di coordinamento, ha però un aspetto positivo, perché incrementa la specializzazione.

 

Il pessimista. Ma, complessivamente, peggiora l’organizzazione amministrativa, su cui hanno gravato fattori condizionanti molto pesanti, fin dall’inizio. Il primo luogo, Cavour, l’architetto, è mancato quando si erano appena poste le fondamenta dello Stato. Pensi – per fare una comparazione – che i due suoi coetanei Otto von Bismarck e William Gladstone hanno vissuto per circa quarant’anni più a lungo di Cavour e che per circa altri vent’anni hanno governato rispettivamente la Germania e il Regno Unito. Il secondo fattore negativo è costituito dalla questione meridionale, che dopo pochi decenni dall’Unità si è andata a unire alla questione amministrativa. Ancora oggi due terzi dei dipendenti pubblici sono meridionali e circa il 90 per cento degli altri gradi dell’amministrazione sono coperti da centro-meridionali. Questa meridionalizzazione dello Stato ha comportato la diffusione di una cultura idealistica, non pragmatica, giuridica (ma d’impianto tedesco), familistica. Sottosviluppo e pubblica amministrazione sono divenute una cosa sola; la pubblica amministrazione è diventata il riflesso e il rimedio del sottosviluppo. Il terzo fattore negativo è costituito dalla debole tradizione militare e industriale. La cultura organizzativa diffusa di tutti i paesi moderni è maturata nelle caserme e negli stabilimenti industriali (dove maturano strategie, gerarchia, processi produttivi e altre nozioni di base della cultura dell’organizzazione). L’esercito italiano per quarant’anni ha svolto in larga misura una funzione di ordine pubblico per il cosiddetto brigantaggio e la grande industria ha avuto soltanto un limitato e breve periodo di vita. Insomma, in Italia non si è sviluppata una cultura organizzativa diffusa di cui abbia potuto giovarsi la burocrazia pubblica. Se mi consente, c’è un ultimo fattore: l’assenza di una cultura luterana. L’etica protestante non ha contribuito soltanto a creare lo spirito del capitalismo, ma anche quello della funzione pubblica intesa come mestiere o professione, ma anche come vocazione, “Beruf”. E’ mancato il senso dello Stato.

 

L’ottimista. Tuttavia, questa che lei chiama organizzazione decentrata e disaggregata funziona meglio rispetto alle amministrazioni compatte, perché riesce ad affrontare compiti molto diversi. Riesce a coniugare la piramide e la rete con l’arcipelago. Pensi alle molte società che dipendono dal ministero dell’Economia e delle Finanze, Studiare sviluppo, Invimit, Invitalia, Sose, Consip, Mefop. Ogni struttura corrisponde a una funzione. Inoltre, questa disaggregazione e i legami internazionali producono dinamiche interessanti. La politica è vincolata non soltanto dalla legge, ma anche dai vincoli esterni. I centri motori nazionali sono rafforzati dalla necessità di dialogare con quelli di altri 26 paesi. Questi condizionamenti europei e globali rafforzano la governabilità del paese.

 

Il pessimista. Anche dal punto di vista delle dinamiche vi sono molti inconvenienti. Gliene segnalo due, molto vistosi. La politica divisa in due parti, quella simbolica, sempre più gladiatoria. Quella dietro le quinte, dove agiscono sempre più interessi particolari. L’interazione tra giudici e politici, con un sistema giudiziario che condiziona e non è condizionato dalla politica e con la politicizzazione endogena di cui le ho già detto, ben diversa dalla politicizzazione esogena (i costituenti erano preoccupati per quest’ultima e non potevano neppure immaginare potesse esserci una politicizzazione endogena). E poi ci sono tutti gli altri mali del nostro sistema politico. Glieli elenco: la fragilità dei governi, l’assenza del carattere deliberativo delle decisioni, la carenza di “riserve di competenze” (come le grandi scuole francesi o le “think tanks” americane), il deficit di capacità amministrativa, intesa sia come capacità di realizzazione sia come capacità di programmazione.

 

L’ottimista. Invece di lamentarci sempre di questi mali, perché non ci chiediamo se gli italiani non vogliono proprio questo, uno stato di cose che sparge sabbia nelle ruote della democrazia? Pensi che anche nel Regno Unito si affacciano periodicamente idee e proposte dirette ad abbandonare quella che loro chiamano “elective dictatorship”.

 

Il pessimista. Se lei invoca la società, le ricordo che molti osservatori lamentano una corruzione dilagante, un’Italia endemicamente corrotta, una corruzione che infetta gran parte della vita sociale e politica, molto più diffusa che in altri paesi europei, che dà luogo a uno stato di emergenza della democrazia (sono parole di Gherardo Colombo e di Gustavo Zagrebelsky, Il legno storto della giustizia, Milano, Garzanti, 2017).

 

L’ottimista. Tutto questo è effetto dell’ingigantimento del tema della corruzione percepita, che ha portato all’istituzione di un organo custode della moralità pubblica, l’Anac. Il suo primo presidente si è espresso su tutto, dai migranti alle droghe leggere, alle fondazioni, ai partiti. Ma non sappiamo se il fuoco di sbarramento della prevenzione della corruzione abbia dato frutti. Sappiamo, però, che ha messo in moto un meccanismo che, mentre corre il rischio di acciuffare pochi corrotti, spaventa un’amministrazione già carica di adempimenti amministrativi. Le ricordo quello che ha dichiarato il 12 agosto 2019 Diego Piacentini al Foglio: “l’Italia, rispetto ad altri paesi, ha una complessità superiore, determinata dal fatto che le regole di acquisto sono governate dall’Anac, l’anticorruzione”. E, poi, non tutte le illegalità comportano corruzione. I dati sui casi effettivamente verificatisi di corruzione all’estero di imprese multinazionali vedono la Germania all’undicesimo posto e l’Italia al diciannovesimo posto su 152 paesi. C’è un forte divario tra i dati sulla corruzione percepita, quella misurata, quella giudicata, come si può notare leggendo i dati dell’Eurobarometro o studi come quelli a cura di Michela Gnaldi e Benedetto Ponti, Misurare la corruzione oggi. Obiettivi, metodi, esperienze, Milano, Franco Angeli, 2018.

 

Il pessimista. Dobbiamo tornare a lavorare. Per concludere, le ricordo che, nonostante i problemi urgenti posti dalla pandemia, le nostre istituzioni sono in un cantiere aperto. Ridotto il numero dei parlamentari, bisogna ridisegnare i collegi,  modificare i regolamenti parlamentari, ridurre i rappresentanti regionali per l’elezione del presidente della Repubblica, modificare la base regionale del Senato e l’età del voto per il Senato e, infine, modificare la formula elettorale. La sospensione delle regole di bilancio è valida fino al 2022. Bisogna quindi pensare urgentemente a una politica di rientro e alla possibilità di rendere permanente il potere di emissione di titoli di debito europei comuni. Non si può continuare nella politica dei ristori, che è congiunturale, ma occorre pensare a interventi strutturali. Occorre riflettere sulle modificazioni sociali prodotte dal telelavoro, al quale si ricorreva in casi limitati, ma che ora riguarda circa il 40 per cento dei lavoratori, in modi diversi, perché quelli con funzioni medio-basse sono toccati solo per il 19 per cento, quelli con funzioni medio-alte per il 55 per cento. Quindi, c’è il pericolo che si venga a creare una sorta di divisione per classi economico-sociali. Bisogna gestire il passaggio da modalità di lavoro disegnate sull’unità spazio-temporale a modalità di lavoro che prescindono dall’orario di lavoro. Sullo sfondo rimane il tema della sfiducia costruttiva, certamente utile, ma che rischia di mandare in soffitta il presidente della Repubblica, che perderà il suo ruolo fondamentale, quello di gestore delle crisi, e rimane un problema che mi sta molto a cuore, quello di “fare gli italiani”.

 

Ricordiamoci che la storia è un cimitero di popoli che non seppero guardare verso l’avvenire, che non percepirono il corso della storia”: sono parole di Carlo Sforza, in un discorso tenuto a Perugia il 18 luglio 1948 (ora in Carlo Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma, Atlante, 1952).