La giustizia Amara riguarda anche Draghi

Claudio Cerasa

Il caso Davigo, i pm impuniti, l’altra sfida del Recovery. Perché l’irresponsabilità di cui gode il circo mediatico giudiziario ha molto a che fare con la fuga dell’Italia dalle sue responsabilità 

C’è un filo tanto sottile quanto importante che permette di legare all’interno di un’unica e appassionante storia il passo falso commesso da Davigo sul caso Amara e i passi futuri che il governo dovrà compiere per trasformare in realtà le promesse contenute all’interno del Recovery plan, a partire dai temi legati alla giustizia. La vicenda Davigo-Amara è utile da studiare non solo per provare a illuminare le ormai ordinarie sconcezze del circo mediatico (circo che considera giustamente Davigo un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze manettare d’Italia) ma anche per provare a illuminare un problema altrettanto importante che è quello che riguarda una grave patologia del sistema giudiziario italiano: la sostanziale irresponsabilità di cui gode il mondo della magistratura.

 

In questo senso, la vicenda Davigo-Amara è piuttosto educativa. E se mai ce ne fosse bisogno, dimostra che i criteri che i magistrati usano per determinare la colpevolezza degli indagati sono del tutto spropositati rispetto ai criteri che i magistrati usano per giudicare se stessi e rispetto ai criteri che lo stato usa per giudicare ogni altro dipendente pubblico che svolga una funzione diversa dall'essere un giudice o un magistrato. Succede così che di fronte a un ex consigliere del Csm come Davigo che ammette di non aver fatto quello che un qualsiasi altro consigliere del Csm dovrebbe fare quando riceve un verbale coperto dal segreto istruttorio – ovvero trasmettere con un atto formale le carte al comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura per non essere accusato di violazione del segreto istruttorio – il Csm non trovi di meglio da dire che in casi come questi no, niente, il Csm non può fare proprio nulla. Succede così che di fronte a un magistrato accusato di aver violato il segreto istruttorio gli organi addetti alle sanzioni disciplinari dei magistrati non facciano trapelare nulla di diverso dall’idea di trasferire quel magistrato in un’altra procura per incompatibilità ambientale (il problema è l’ambiente, o il traffico direbbe Johnny Stecchino, non il magistrato che tenta di fottere il capo della propria procura). Succede così che di fronte a giornali che commettono reati pubblicando notizie coperte dal segreto istruttorio nessuno alzi il dito per dire che la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale è un reato punibile dall’articolo 684 del codice penale; e questo non succede per la semplice ragione che in Italia il circo mediatico gode di una sorta di scudo penale che gli permette di fare anche quello che non si potrebbe fare (con una piccola oblazione si sana ogni violazione). Succede così che di fronte a una procura che, come scritto due giorni fa da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, decide di rallentare le indagini sul caso Amara per “non esporre inutilmente le istituzioni alla prova di verità o falsità di Amara su Ungheria” considerando “la prospettiva di dover gestire, in caso di radicale sbugiardamento di Amara, le potenziali ricadute sulla sua attendibilità nei procedimenti Eni” risulti evidente più che mai quanto il nostro paese abbia a che fare con un sistema giudiziario perfettamente tarato per allungare a proprio piacimento ogni indagine giudiziaria.

 

La sostanziale irresponsabilità di cui gode il mondo della magistratura (ieri il deputato di Azione Enrico Costa ha ricordato  la percentuale di valutazioni di professionalità con esito positivo sul lavoro dei magistrati fatta dal Csm, e si rasenta la perfezione: anno 2010, 97,73 per cento; 2011: 98,40; 2012: 97,15; 2013: 98,18; 2014: 97,13; 2015: 99,5%; 2016: 99,30) diventa ancora più lampante se si ha il coraggio di confrontare la disparità di trattamento che esiste tra un dipendente pubblico impegnato in magistratura e un dipendente pubblico impegnato in un altro genere di lavoro. A differenza dei dipendenti pubblici, i magistrati non rispondono alla Corte dei conti, non hanno un equivalente dell’Anac che indaga contro di loro, hanno un organo di disciplina composto in misura prevalente da magistrati, non hanno categorici doveri di trasparenza, possono usare a proprio piacimento le categorie del segreto e della riservatezza. 

 


Devono rispondere verso terzi e verso lo stato non in maniera diretta e senza limiti ma in maniera indiretta (il soggetto danneggiato agisce contro lo stato che poi può rivalersi verso il magistrato) soltanto una volta esauriti tutti i mezzi di tutela processuale del soggetto danneggiato (dopo i ricorsi) e in modo sempre limitato (i dipendenti pubblici per il danno causato possono vedersi intaccato il patrimonio, i magistrati per il danno causato possono pagare al massimo metà dell’annualità che il magistrato percepiva quando l’azione è stata proposta). L’effetto di tutto questo non riguarda solo un diffuso senso di impunità, come direbbe forse Davigo parlando di un qualsiasi cittadino diverso da un magistrato non condannato dopo essere stato indagato, ma riguarda un problema che è insieme di carattere politico ed economico e che si trova alla base di un fenomeno spesso denunciato dalla politica: la fuga dalla firma da parte dei dipendenti pubblici. Gli “effetti paralizzanti della fuga dalla firma” sono stati affrontati a febbraio da Mario Draghi all’apertura dell’anno giudiziario della Corte dei conti. Il tema sta certamente a cuore al presidente del Consiglio ma un governo che vuole essere ambizioso nella programmazione dei prossimi anni non può far finta che l’irresponsabilità di cui gode il circo mediatico-giudiziario non abbia qualcosa a che fare con la fuga del paese dalle sue responsabilità. E la prima occasione utile per misurare il coraggio che  avrà il governo su questo tema coincide con il prossimo decreto sulle semplificazioni. Il Recovery Italia, caro Draghi e cara Cartabia, passa prima di tutto da qui. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.