(Foto LaPresse)

Gli effetti della giustocrazia

Si scrive fine vita, si legge eutanasia

Claudio Cerasa

Il Pd e il M5s spingono il Parlamento verso un pericoloso piano inclinato. Testo pronto. Fermarsi si può   

La notizia che vi stiamo per dare riguarda una scelta importante compiuta da un pezzo del Parlamento italiano che ha deciso di fare quello che non era obbligato a fare: portare in discussione una legge che vuole regolare, all’interno di un reticolo di norme, di leggi, di codici e di diritti, il delicatissimo tema del fine vita. Il fine vita è un tema con cui la politica ha cominciato a fare i conti in modo non superficiale all’indomani di una storica sentenza della Corte costituzionale, che nel dicembre del 2019 scelse di eliminare la sanzione per l’aiuto al suicidio fissando contestualmente alcuni paletti ai quali i giudici di merito, nel futuro, avrebbero dovuto attenersi rigorosamente.

 

Quattro in particolare: per configurarsi un diritto relativo all’aiuto al suicidio – ha scritto la Corte, scegliendo di sostituirsi in modo a dir poco anomalo al potere legislativo – occorre essere di fronte a una persona: (a) affetta da una patologia irreversibile, (b) che sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale ma che resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La legge in questione, la cui discussione in commissione alla Camera è fissata tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, potrebbe far discutere per questioni di natura politica (il provvedimento è promosso da Pd, M5s e Leu) e potrebbe far discutere per questioni legate al tempismo non casuale scelto dal centrosinistra (il centrosinistra, come è evidente, ha qualche difficoltà a influenzare l’agenda del governo e così ormai da tempo ha scelto di costruire parte della propria identità politica quasi esclusivamente sul tema della difesa dei diritti: ddl Zan, donne e per l’appunto il fine vita).

 

Ma la vera ragione per cui la legge sul fine vita merita di essere presa in esame ha a che fare con un punto che riguarda più i temi etici che quelli politici. E in questo senso, la domanda alla quale presto si ritroverà a rispondere la maggioranza e probabilmente anche Mario Draghi è una domanda che mette i brividi: la stagione di Draghi verrà ricordata anche per essere una stagione che ha fatto fare all’Italia un primo passo in avanti verso il piano inclinato della dolce morte? Si potrebbe cercare, come faranno in molti nei prossimi giorni, di individuare dei paletti minimi da rispettare per evitare che la legislazione sul fine vita possa rappresentare un primo passo per la legalizzazione della dolce morte. Ma la verità difficile da ammettere è che quando un paese sceglie su questi temi di uscire dalla zona grigia del rapporto tra famiglia e medico, decidendo di superare la stagione della valutazione caso per caso e scegliendo così di creare un primo embrione di un diritto destinato a diventare universale come il diritto ad avere una dolce morte, quel paese sceglie di imboccare una strada simile a un piano inclinato, dove un diritto si sa dove inizia ma non si sa più dove finisce.

 

La legge, per quel che si capisce, così la raccontano coloro che la stanno scrivendo, “non vuole configurare un diritto, ma solo una facoltà”, “non vuole introdurre un dovere da parte del Servizio sanitario nazionale di erogare un servizio ma vuole assicurarsi che la verifica dell’esistenza dei requisiti individuati dalla Corte comporti che chiunque agisca per aiutare una persona in quelle condizioni a suicidarsi non sia perseguibile” e “delegherà la sussistenza dei requisiti a un comitato etico che sarà presente in ogni clinica e che verificherà l’esistenza delle condizioni per la richiesta delle disposizioni anticipate di trattamento”. 

 

Sarà probabilmente così, ma come sa bene anche chi si sta occupando della legge è evidente che una volta che il Parlamento deciderà di trasformare il suicidio assistito in un diritto codificato sarà molto difficile evitare che questo diritto non si trasformi in qualcosa di più grande. E se così sarà, se il Parlamento si sentirà in dovere di introdurre una legge imposta di fatto dalla Corte costituzionale, che in modo quantomeno improprio ha sollecitato più volte il Parlamento per intervenire su questi temi, sarà utile rileggere un passaggio dedicato al tema della “giuristocrazia” da Luciano Violante in un vecchio libro pubblicato per Carocci (Anatomia del potere giudiziario). “In questo neocostituzionalismo – scrive Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera, ex parlamentare prima del Pci e poi del Pd – la garanzia dei diritti non sta più nell’unità e nella partecipazione alle istituzioni rappresentative; sta nelle giurisdizioni e nella loro assoluta indipendenza dal potere politico. La rappresentanza democratica lascia il campo ai tecnocrati del diritto: giuristocrazia invece della democrazia. Il nuovo costituzionalismo sottrae alla politica e attribuisce al giudice anche il potere di riconoscere nuovi diritti”. Fare una legge, in questo caso, significa far scorrere la pallina dei diritti sul fine vita su un piano inclinato.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.