il retroscena

Così alla Camera il Pd s'impantana tra Serracchiani e Madia

Alla fine la partita al Senato, col roboante Marcucci, s'è risolta prima. A Montecitorio, invece, tutto rimandato a martedì, con un voto che rischia di spaccare il gruppo

Valerio Valentini

Pareva fatta per la vicepresidente dem. Poi s'è candidata anche l'ex ministra. Il nodo della commissione Lavoro: "Se i dem la rimettono in discussione, la presidenza spetta a noi di Forza Italia", dice Occhiuto. La difficile eredità di Delrio. E Letta elogia "l'intelligenza collettiva"

E sì che doveva essere quella facile, la partita della Camera. Poi, però, si sa come vanno le cose nel Pd. E insomma il cambio della guardia alla guida del gruppo del Senato, che pareva destinato a produrre traumi e bisticci, dopo un incontro finito a male parole tra Andrea Marcucci ed Enrico Letta, s’è risolto in modo tutto sommato indolore: col presidente uscente che, pur denunciando pubblicamente “un metodo che non mi è affatto piaciuto”,  ha provveduto a blindare la candidatura unitaria della sua collega Simona Malpezzi. E invece a Montecitorio, dove Graziano Delrio, pur masticando amaro per la fuga in avanti del neo segretario (“Ma in fondo, avendo avuto a che fare a lungo con Matteo Renzi, sono avvezzo alle guasconate”, dice lui, vellutato e velenoso, come a suggerire un parallelismo tra Letta e chi gli disse di star sereno), aveva seguito la strada della non belligeranza, le cose si vanno guastando. E al momento, dopo oltre tre ore di assemblea di gruppo, la scelta sembra destinata a slittare fino all’inizio della prossima settimana, con un voto che vedrà confrontarsi Debora Serracchiani e Marianna Madia, salvo novità dell’ultimo minuto. “Non saremo mai un partito di leadership uniche che intorno al leader concludono tutto”, prova a esultare, a fine riunione, Enrico Letta. “L'intelligenza collettiva – chiosa – è la vera cifra della modernità”. Ma a volte, verrebbe da dire, anche meno.

 

Come che sia, l’idea dei Delrio era infatti di evitare che le tensioni deflagrassero procedendo a un avvicendamento indolore. E allora s’era pensato di procedere con una sorta di acclamazione in favore di Debora Serracchiani, col capogruppo uscente è comunque in sintonia. Sembrava fatta, insomma. Sennonché, ieri pomeriggio, nell’entropia instancabile del Pd, tutto s’è rimesso in moto. Forse perché la promozione dell’ex presidente del Friuli Venezia Giulia alla guida della truppa di Montecitorio porterebbe al riassegna mento di quella casella di vicepresidente del partito che lei ricopre dell’epoca Zingaretti, e che innescherebbe un probabile domino da cui nessuno sa se ne uscirebbe più forte o più debole di prima. Forse perché, più concretamente, il primo effetto dell’elezione della Serracchiani sarebbe, per il Pd, la perdita della presidenza della commissione Lavoro, guidata proprio dalla deputata friulana. “Abbiamo i numeri per ottenerla di nuovo noi”, dice chi la sostiene. Ma Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia, già si frega le mani: “Io ho intenzione di rivendicarla, se la Serracchiani trasloca”, ci dice. “Anche perché noi siamo l’unico partito di maggioranza che non ha alcuna presidenza di commissione, e dunque ci sarebbe dovuto un riconoscimento in tal senso”.

 

E insomma ieri pomeriggio, nel cortile di Montecitorio, c’era il trafficare delle grandi occasioni. E Luca Lotti, iperattivo leader della corrente riformista, prima discuteva con la Serracchiani seduto su un panchina, subito dopo parlottava con Matteo Orfini, che invece andava predicando l’opportunità di una nuova candidatura. Che, di lì a qualche ora, s’è poi concretizzata nella disponibilità di Marianna Madia, ex ministra della Pa con Renzi e Gentiloni, portavoce del partito nell’intermezzo di Maurizio Martina e poi responsabile Innovazione nella segreteria Zingaretti. Candidatura trasversale, insomma, come in fondo lo è anche quella della Serracchiani. E qui sta il busillis.

 

Ecco che allora l’assemblea che sembrava quella del commiato e del passaggio di testimone (“Caro Graziano, quel tuo ‘Si chiamava Piersanti’ urlato contro Conte, in occasione della fiducia al governo gialloverde, fu il primo passo della ripartenza del Pd”, dice Enrico Borghi), diventa quella della disfida, proprio sotto gli occhi dello stesso Letta. Prima ci pensa Luca Rizzo Nervo, orfiniano sempre pugnace, a movimentare la discussione: prendendo la parola, rivolge un ringraziamento non rituale al segretario. “E’ la seconda volta che participi alle assemblee... hai già uguagliato il record”. Allusione velenosa alla scarsa frequentazione delle riunioni di gruppo da parte di Zingaretti, subito rintuzzata da Claudio Mancini, che al presidente del Lazio è vicino, e che replica: “Sono contento che la presenza del segretario legittimi i gruppi parlamentari, mi auguro che succeda anche il contrario perché con il precedente non è stato generoso”. Insomma, scaramucce.

 

Poi, quando si approssima il momento della verità, di fronte alla presenza di due candidature, è Walter Verini a proporre una mediazione. “Potremmo risolverla così: col capogruppo uscente che consulta personalmente i vari deputati e poi ci riferisce il nome più apprezzato”. Il tentativo è quello di evitare una conta che spaccherebbe il gruppo. Ma Carla Cantone non ci sta: “Se confronto deve esserci, che sia una votazione formale”. E dunque siamo qui. Con l’assemblea del Pd che s’avvia a prendere atto della mancanza di un accordo, e con l’eventualità sempre più concreta di un rinvio a martedì prossimo, quando si procederà al voto. “Siamo un partito fatto di personalità forti, tra cui si può scegliere”, conclude Letta. Che poi, però, ammonisce: “Dobbiamo essere un partito con anime e sensibilità diverse, ma non una federazione di partiti”.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.