la “riforma della riforme”

La sfida di Brunetta

Stefano Cingolani

Abbattere i muri che ingessano la pa si può. Il ministro ingaggia un premio Nobel: il cipriota Christopher Pissarides ai vertici della Scuola superiore della pa. Bentivogli general manager?

Il nome, ancorché altisonante, promette bene: “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e della coesione sociale”. E’ stato firmato ieri dal governo e dai segretari generali dei tre maggiori sindacati Cgil, Cisl e Uil; è il primo atto del ritorno di Renato Brunetta al ministero della Pubblica amministrazione, ma vuole essere anche il segnale del nuovo clima di collaborazione (non concertazione) con le parti sociali. “Il buon funzionamento del settore pubblico è al centro del buon funzionamento della società. Questo è sempre vero, con la pandemia è ancora più vero”, ha detto Mario Draghi durante la cerimonia ufficiale a Palazzo Chigi. “C’è molto da fare”, ha aggiunto con il suo solito realismo, quello di chi non promette quel che non può mantenere. “L’età media oggi è di 50 e qualcosa, quasi 51 anni, vent’anni fa era di 43 e mezzo – ha ricordato il presidente del Consiglio – Secondo aspetto è la formazione: si spendono ben 48 euro a persona, e bene lo dico ironicamente, e un solo giorno è destinato a tale scopo”.  

 

L’accordo prevede un nuovo sistema contrattuale meno lontano da quello in vigore nell’impiego privato, dalla detassazione del salario accessorio al diritto permanente alla formazione, allo smart working contrattato. Si parla di una nuova “classificazione” del pubblico impiego, di innovazione digitale, centralità dei “sistemi di partecipazione sindacale”, permessi e altre agevolazioni per il sostegno alla famiglia. La contrattazione integrativa diventa centrale, intanto perché permette di valutare e premiare la produttività e poi perché sarà il criterio di organizzazione per lo smart working.

   
La formazione continua diventa un diritto/dovere. Entra a regime nella parte fondamentale della busta paga l’elemento perequativo, cioè la voce che permette di non perdere il vecchio “bonus Renzi” anche quando lo stipendio cresce per via dell’aumento contrattuale. “Questo patto inaugura una nuova stagione di relazioni sindacali e il negoziato che si apre per il rinnovo contrattuale avverrà in questo contesto – spiega il ministro della Pubblica amministrazione Brunetta – Venerdì convocherò tutte le confederazioni sindacali rappresentative del pubblico impiego con l’obiettivo di avviare il negoziato in tempi brevi”. I leader sindacali hanno ottenuto parecchio, in particolare “risorse aggiuntive” per un aumento medio di 107 euro al mese per i 3,2 milioni di dipendenti e si dicono soddisfatti, a cominciare da Maurizio Landini che parla di “una grande giornata”. Al di là dell’enfasi di circostanza, non è ancora chiaro se l’accordo aprirà davvero la strada alla riforma delle riforme, chiave di volta per il successo; molto dipende da come verrà applicato e con quale spirito. 

   
La gestione del capitale umano è senza dubbio un punto di partenza fondamentale a cominciare proprio dallo squilibro che esiste tra il lavoro pubblico dove il posto è garantito a priori e quello privato dove il licenziamento è diventato, almeno sulla carta, più facile di un tempo. Sarebbe meglio superare barriere ottocentesche, ma di questo non si parla per timore di un conflitto che può rivelarsi distruttivo. Introdurre flessibilità normativa e salariale nell’apparato statale a tutti i livelli è una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Il mercato del lavoro richiede un approccio sistemico. Draghi ne è consapevole, lo stesso può dirsi per Brunetta. Lo dimostra la scelta di nominare ai vertici della Scuola superiore della Pubblica amministrazione il cipriota Christopher Pissarides, premio Nobel per l’Economia nel 2010, e non è escluso che sia Marco Bentivogli, ex segretario della Fim Cisl, a vestire i panni del general manager.

 

Pissarides ha elaborato un modello che Brunetta ha studiato agli inizi degli anni 90 e introdotto in Italia, ricorda l’economista Giuseppe Pennisi, il quale ha ricoperto posizioni di vertice nella scuola dal 1995 al 2008. Per certi versi è il retroterra teorico della riforma introdotta da Tiziano Treu e della legge Biagi. Se il messaggio inviato è che il governo Draghi vuole riprendere quel cammino interrotto bruscamente dalla coalizione gialloverde e mai ripreso dai rossogialli, si tratta senza dubbio di un passo avanti.

 

Che diranno i Cinque stelle? E la Lega, soprattutto a proposito delle pensioni? E il Pd nel quale il livore anti renziano ha aperto la strada alla corrente che vuole introdurre di nuovo l’articolo 18 (proposta apertamente sostenuta dalla Cgil di Landini)?  E’ una partita tutta da giocare. Tuttavia l’ostacolo per ora insormontabile riguarda le regole che ingessano la Pubblica amministrazione. Finché prevarrà una visione organicistica, quella che vede al centro il diritto amministrativo, la contabilità di stato, la Corte dei conti, avranno la meglio il formalismo, l’ipergarantismo paralizzante, la protezione dello status quo. Dunque, svecchiamo i burocrati, trasformiamoli in manager, mandiamoli a Harvard, ma soprattutto mettiamoli in grado di operare ponendo al centro il risultato.

 

Draghi ha denunciato “la fuga dalla firma”, per bloccarla non basta snellire le procedure, occorre un ripensamento radicale. Non è un cambiamento che si fa in breve tempo, ma resta l’essenza della riforma della Pubblica amministrazione che fa parte delle “regole d’ingaggio” stabilite dall’Unione europea. Sarà una dura battaglia, e il successo non è garantito.