il caos nel pd

"Dobbiamo salvare il Pd". Così Franceschini lavora per Letta

Al Nazareno c'è chi medita la resa dei conti: "Basta con gli unanimismi di facciata"

Valerio Valentini

Chi potrebbe dire di no all'ex premier? Il ministro della Cultura è convinto che la sua sia la candidatura adatta per fermare la tentazione del blitz che i fedelissimi di Zingaretti hanno. Ecco la geografia fluida dell'Assemblea dem, che domenica elegge il nuovo segretario

Ai tanti che lo cercano e che lo consultano, risponde con una certa malcelata vanità che “sto lavorando per salvare il Pd”. E però dietro la celia, forse a dettare le manovre di Dario Franceschini c’è un’ansia reale. La stessa che d’altronde induce Stefano Bonaccini, nei conciliaboli più riservati, a dire che “innanzitutto, spero che domenica sera il Pd ci sia ancora”. Perché domenica, appunto, l’assemblea che la presidente Valentina Cuppi ha confermato in calendario si spalanca come un salto nel buio per tanti, un’incognita che grava sui destini di tutti. Ed è per questo che Franceschini s’è messo a filare la lana.

 

Perché il ministro della Cultura sa bene che, tra i fedelissimi di Nicola Zingaretti, la tentazione dello strappo è accarezzata da molti. Ne sono convinti anche dentro il correntone di Base riformista, quello che al Nazareno viene tacciato di coltivare nostalgie renziane: e infatti quando due giorni fa la Cuppi ha annunciato la creazione di un organismo esecutivo per la gestione dell’Assemblea, inventandosi dal nulla un istituto non previsto dallo statuto e arruolandovi tutto l’entourage del segretario dimissionario, è dovuto intervenire Lorenzo Guerini per suggerire a tutti la calma.

 

Senza che però questo bastasse a scacciare il fantasma del blitz, della prova di forza, in un’assemblea che si preannuncia imprevedibile. E non solo perché verrà gestita in videoconferenza, col disagio che ne conseguirà. Il problema vero è che la geografia frastagliata dell’assise del Pd, coi suoi mille delegati, deriva da un congresso, quello del marzo del 2019, sprofondato ormai nel trapassato della politica. Per cui gli strateghi di Zingaretti possono ben vantare il 70 per cento dell’assemblea: ma tra quei 680 delegati che s’attribuiscono,  c’è dentro un po di tutto. Perché a votare per Zinga, due anni fa, fu perfino quel Bonaccini che ora ne sarebbe lo sfidante principale. Ma soprattutto ci sono almeno 270 delegati fedeli ad Andrea Orlando, e sessanta che rispondono a Gianni Cuperlo. E soprattutto ce se sono  190 che seguono le indicazioni di Franceschini. Il quale non acconsentirebbe a una soluzione distruttiva. 

 

Ecco spiegata, allora, la candidatura di Enrico Letta. Alla quale il ministro della cultura, che con l’ex premier condivide decenni di storia democristiana e popolare, lavora sul serio. Sapendo che a un nome tanto autorevole sarebbe difficile per chiunque dire di no. E forte di questa consapevolezza, lascia intendere che sì, si potrà arrivare a ottenere quel che lo stesso Letta richiede: che si tratti, cioè, di una candidatura condivisa, e che il mandato duri fino al 2023. Di certo, nell’ottica di Franceschini, resterebbe in carica per gestire la partita che al ministro della Cultura più sta a cuore: quella dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Ed è  una tabella di marcia su cui anche Guerini e Luca Lotti, e con loro la corrente di Base riformista, potrebbero convenire, certificando dunque quella funzione di ago della bilancia, di perenne garante degli equilibri interni, che a Franceschini è congeniale assai. E infatti il ministro della Difesa lascia intendere ai suoi che su Letta non ci sarebbero preclusioni, a patto che sia quello il nome proposto dalla maggioranza.

 

E qui allora si torna al Nazareno. Dove  l’ipotesi di Letta parrebbe forse un compromesso al ribasso, se non  una beffa. Perché, dopo aver tanto insistito per ricondurre il Pd su posizioni di sinistra spinta, ci si ritroverebbe con un segretario di certo più vicino a Mario Draghi che non a Giuseppe Conte. E non è un caso se Michele Bordo, soldato fedele a quell’Orlando che pure di Letta parla come di “un’ottima soluzione”, giorni fa ci diceva che “più che un congresso, al Pd servirebbe una rifondazione, perché non possiamo continuare a essere il partito del ‘ma anche’, quello che tiene al suo interno tutto e il contrario di tutto”. Insomma, un ritorno al “partito del lavoro”, alla Ditta. Ragionamenti analoghi a quelli che i pretoriani di Zingaretti, come Nicola Oddati e Stefano Vaccari, vanno facendo da giorni: dicendo che “ciò di cui non c’è bisogno è un unanimismo di facciata” o “un segretario che eluda i nodi politici che le dimissioni di Zingaretti impongono di affrontare”.

 

Ma davvero Letta, cresciuto alla scuola di Beniamino Andreatta, resusciterebbe i  Ds? “Forse no. Ma per tanti  ex renziani sarebbe comunque indigeribile, visti gli screzi del passato”, sogghignano al Nazareno, dove evidentemente la linea Casalino, quella dei “cancri da estirpare”, non è considerata del tutto assurda. Ma forse anche per questo Franceschini spera che Letta che sia il nome giusto per “salvare il Pd”: perché, non accontentando davvero nessuno, potrebbe in fondo essere accettato da tutti. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.