La vignetta di Makkox

Lost in transition

Carlo Stagnaro

È possibile salvare l’ambiente senza sacrificare il benessere? È un punto centrale del  mandato di Draghi, e ora abbiamo anche un ministero. Ma la transizione non è un pranzo di gala. E con il modello Greta non si va lontano. I dubbi sull’energia del futuro, le risorse da impegnare, la concorrenza necessaria. Un’indagine

Si può salvare l’ambiente senza sacrificare l’economia? Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ne ha fatto una questione centrale del suo mandato: “Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo”, ha detto nel discorso della fiducia. La scelta di affidare a Roberto Cingolani un ministero della Transizione ecologica (in parallelo a quello della Transizione digitale di Vittorio Colao) ne conferma l’importanza all’interno del programma italiano di ripresa e resilienza. Non sono solo l’urgenza della questione climatica e la crescente attenzione dell’opinione pubblica a spingerci in questa direzione, ma anche l’evoluzione stessa della politica europea. Il 37 per cento delle risorse di Next Generation Eu andrà obbligatoriamente impegnato su progetti relativi alla trasformazione green. D’altronde, l’Italia e gli altri stati membri dell’Unione dovranno sostenere enormi investimenti per raggiungere l’obiettivo di lungo termine di azzerare le emissioni nette di CO2 e altri gas serra entro il 2050, e quello di medio termine di ridurle del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. La strada è lunga e il tempo è breve: attualmente, le emissioni sono all’incirca del 20 per cento inferiori al 1990 (senza tenere conto del brusco crollo del 2020, dovuto ovviamente al Covid). Rivoluzionare il modo in cui produciamo e consumiamo energia – e dunque i nostri comportamenti privati e i processi produttivi delle imprese – può apparire un’utopia. 

  
Sarebbe ingenuo pensare che una missione tanto vasta possa giocarsi in un solo paese, o in un solo continente. La transizione, se sarà, dovrà coinvolgere gradualmente l’intero pianeta. E, di conseguenza, oltre un certo limite dovrà procedere sulle sue gambe: non si può neppure immaginare una trasformazione tanto vasta senza che le innovazioni – tecnologiche, di processo e comportamentali – risultino migliori rispetto alle tecnologie tradizionali. Mai come oggi è stata attuale la pur abusata battuta dello sceicco Ahmed Zaki Yamani, storico ministro del petrolio dell’Arabia Saudita scomparso pochi giorni fa. “L’età della pietra – disse – non è finita perché si sono esaurite le pietre”. E’ finita perché (e quando) il bronzo si è imposto come alternativa migliore e più economica. Allo stesso modo, “l’età del petrolio finirà molto prima che si esaurisca il petrolio”. Forse ci troviamo in prossimità di questo snodo, e le politiche pubbliche possono accelerarlo. Ma non possono cavare il bronzo (o il suo moderno equivalente energetico) dove non c’è. La questione allora cambia e diventa: cosa si può fare per aumentare la probabilità di trovarlo, senza sapere precisamente cosa stiamo cercando ma sapendo solo che ci serve qualcosa che abbia – rispetto ai nostri sistemi energetici – le stesse proprietà che aveva il bronzo rispetto alla pietra? 

  
La risposta non esiste; o, meglio, non esiste una risposta. Non c’è un interruttore per azzerare le emissioni in tempi rapidi e senza conseguenze drammatiche, come vorrebbero Greta Thunberg e i suoi seguaci. Lo conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la crisi del Covid: nel 2020, nonostante il drammatico rallentamento dell’attività economica e i periodi di lockdown forzato, le emissioni globali sono scese appena del 6,4 per cento, negli Stati Uniti del 13 per cento, nell’Unione europea attorno all’11 per cento. Per capire come affrontare la transizione, conviene partire dalle lezioni della storia. 

 
Le transizioni energetiche nella storia

Vaclav Smil, professore emerito dell’Università di Manitoba, è stato tra i primi a utilizzare l’espressione “transizioni energetiche” (al plurale) per descrivere i processi di trasformazione strutturale dei sistemi energetici. Nella storia, ha identificato tre grandi transizioni: la prima coincide con la scoperta del fuoco, la seconda con l’affermarsi dell’agricoltura e l’allevamento, la terza col passaggio dalle biomasse tradizionali (legname, carbone di legna) ai combustibili fossili. All’interno di quest’ultima fase, ci sono state ulteriori evoluzioni, dovute alla scoperta di nuove fonti primarie di energia e allo sviluppo di tecnologie più efficienti e specializzate per trasformarle in lavoro. Nessuno di questi cambiamenti è stato rapido o indolore: “Dopo che il carbone raggiunse il 5 per cento dell’offerta primaria di energia a livello globale (intorno al 1840), ci vollero 35 anni perché raggiungesse il 25 per cento e 60 anni perché arrivasse al 50 per cento… Ci vollero circa 40 anni perché il petrolio passasse dal 5 al 25 per cento dell’offerta globale di energia primaria (1915-1955) e circa 60 anni per il gas naturale”. Inoltre, “man mano che l’offerta si diversifica, nessuna fonte primaria si troverà nuovamente a fornire la maggior parte dell’offerta globale, come accadde per le biomasse tradizionali e il carbone: il petrolio ha raggiunto il picco attorno al 40 per cento negli anni Settanta del 1900 e da allora è sceso al 30 per cento, mentre il gas naturale potrebbe non raggiungere mai neppure la soglia di un terzo dell’offerta totale”.

  


La transizione è una scommessa. L’esito dipenderà da come il neo ministro Cingolani imposterà i rapporti di forza interni. Un ministero complesso, pochi i precedenti. Sbagliato comunque delegare tutto allo stato


    

Le rinnovabili e le altre fonti prive di emissioni climalteranti, come il nucleare, si inseriscono in questo contesto. A differenza delle transizioni passate, che furono prodotte da una pluralità di cause, quella di cui parliamo ha un obiettivo preciso (la riduzione degli impatti ambientali) e risponde necessariamente a scelte di policy. Anche così, è difficile pensare che possa realizzarsi in tempi brevi. Anzi, al momento non c’è particolare evidenza di un’accelerazione. Scrive ancora Smil: “Negli anni Sessanta i combustibili fossili fornivano il 97 per cento del consumo globale di energia primaria commerciale, negli anni Novanta il 90 per cento, un quarto di secolo dopo, nel 2015, l’85 per cento”. Gran parte della retorica sulla velocità del cambiamento dipende dalla profonda trasformazione che sta investendo i sistemi elettrici, nei quali effettivamente le fonti rinnovabili (e il nucleare) hanno conquistato un ruolo primario: ma il vettore elettrico soddisfa appena il 17 per cento della domanda finale di energia.

    
Tutto ciò non significa, ovviamente, che non sia possibile perseguire la decarbonizzazione: vuol dire però che tale obiettivo implica una torsione violenta dei nostri sistemi energetici ed economici. Servirà stimolare colossali investimenti e incentivare i comportamenti “virtuosi” di persone e imprese. Risorse e riforme dovranno essere ben pensate, in modo da prevenire sprechi ed evitare di spingere interi paesi in un vicolo cieco. In altre parole: attenzione agli innamoramenti e alle semplificazioni. Qui bisogna fare un altro passo indietro. 

   
Le lezioni degli economisti

Gli economisti si sono a lungo occupati delle imperfezioni dei mercati che, anzi, attraggono gran parte dei loro interessi e delle loro fatiche. Le esternalità ambientali sono uno degli ambiti più studiati. Poiché i prezzi di mercato non sempre riflettono pienamente i costi sociali dell’attività economica, in assenza di correttivi possono determinare comportamenti ambientalmente dannosi. La scelta dei mezzi per evitare questo tipo di problemi è ampia e dipende essenzialmente dalla loro natura e da quanto sono estese e dove risiedono le incertezze: si va da strumenti economici in senso stretto (che correggono i prezzi, attraverso tasse o sussidi, per tenere conto di costi e benefici esterni) all’imposizione di standard (come quelli sulle emissioni dei motori) fino al divieto di certi prodotti (per esempio il bando dei cfc negli apparati di refrigerazione) o all’obbligo di adottare specifiche contromisure (quali i filtri antiparticolato). Tuttavia, non tutte le politiche sono ugualmente efficaci, né il fatto che una politica venga adottata con l’obiettivo di proteggere il clima garantisce che i suoi effetti saranno quelli desiderati. Accanto alle imperfezioni dei mercati ci sono i fallimenti dello stato, altrettanto e più pericolosi. 

   
Nel caso del clima, ci sono alcune peculiarità. La prima: il processo di decarbonizzazione si proietta inevitabilmente nel lungo termine. L’Unione europea ha fissato l’obiettivo di “net zero” al 2050, come il Regno Unito e gli Usa. La Cina punta al 2060. Altri paesi, più indietro nello sviluppo, non hanno ancora adottato un target. Il progresso tecnologico potrebbe offrirci soluzioni che neppure immaginiamo: basta fare un piccolo esperimento mentale e tornare indietro di trent’anni. Nessuno, nel 1991, avrebbe immaginato quanto profondamente sarebbero cambiate le tecnologie e gli usi dell’energia. La seconda caratteristica: non è una partita di un solo paese, né una gara a chi arriva primo. In ballo c’è un cambiamento di ampia portata che investe quasi ogni processo produttivo e comportamento privato. Una conseguenza è che non solo ogni paese, ogni settore e ogni impresa dovrà trovare la sua strada e offrire il suo contributo. Noi non sappiamo quale o quali tecnologie ci consentiranno di raggiungere il risultato, né possiamo saperlo. Ancora meno sappiamo quali tecnologie, oggi inesistenti o pionieristiche, potrebbero aiutarci nel futuro. 

   

Frans Timmermans, commissario europeo per il Clima e il Green Deal europeo con la commissaria per l’Energia Kadri Simson all’Europarlamento nel settembre scorso (LaPresse) 
     

La creazione di un ministero per la Transizione ecologica può cogliere la varietà di sfaccettature della questione. Ma pone dei problemi o, quanto meno, solleva degli interrogativi. Intanto, di ordine pratico: riorganizzare i ministeri (come e più che riorganizzare le aziende) richiede tempo, pazienza e chiarezza d’intenti. Poi c’è un tema che, nel privato, potremmo chiamare di cultura aziendale: la dialettica tra il ministero dello Sviluppo economico (che finora ha avuto competenza sull’energia) e quello dell’Ambiente è tradizionalmente vivace, in quanto i due dicasteri perseguono missioni diverse. E’ un rapporto sano. L’operazione può rivelarsi efficace se porterà a una sintesi di culture differenti: eppure, il trasferimento di talune direzioni da un ministero all’altro appare più come un’operazione di acquisizione che di fusione tra pari. Se il punto d’arrivo sarà equilibrato ci guadagnerà il paese; se invece ne uscirà una macchina che tratta l’ambiente alla stregua di una variabile indipendente, ci perderanno tutti (incluso l’ambiente). La transizione non è un pranzo di gala. Come ha scritto Alberto Clò, è “una rivoluzione che comporterà vincitori e vinti tra imprese, lavoratori, territori. Alcune industrie ne trarranno vantaggio, altre ne saranno emarginate. Dieci, cento esigenze che andranno congiuntamente affrontate definendo le priorità e le risorse da destinarvi”. Si tratta, in gran parte, di una scommessa, il cui esito dipenderà da come Cingolani vorrà impostare i rapporti di forza interni.

  
I precedenti non sono molti ed è comunque troppo presto per trarre un bilancio: la Francia ha adottato un approccio simile al nostro, col suo ministère de la Transition écologique et solidaire, che però si innesta su una tradizione burocratica molto diversa; la Spagna ha fatto qualcosa di simile col ministerio para la Transición Ecológica y el Reto Demográfico. Altri hanno seguito una via alternativa: il Regno Unito ha un Department for Business, Energy & Industrial Strategy distinto da quello dell’Ambiente, mentre la Commissione europea ha assegnato al vicepresidente Frans Timmermans il portafoglio sullo European Green Deal, mantenendo strutture indipendenti e separate per quanto riguarda l’energia e l’ambiente.

  
La complessità del nuovo ministero rende ancora più importante la definizione di una strategia ad ampio raggio, che tenga conto delle tante dimensioni della faccenda e non faccia soccombere le diverse istanze a un unico punto di vista. Ognuno può ritenere che il “game changer” sarà questo o quello: il fotovoltaico, le batterie, l’auto elettrica, l’efficienza energetica, l’idrogeno, la digitalizzazione. Ma sarebbe sbagliato mettere tutte le uova nello stesso paniere: e sarebbe ancor più sbagliato delegare ogni decisione al vertice politico dello stato. La missione è talmente ampia che non si può pensare né di vincerla, né di combatterla con le armi della politica industriale e delle scelte top down. Bisogna ragionare in termini di incertezza e di complessità: come ha detto Cingolani, “possono esserci infiniti percorsi, si tratta di compiere delle scelte”, basate su dati e analisi e disegnate in modo tale da poter essere aggiustate nel tempo. Le decisioni non possono fondarsi sui pregiudizi: devono consentire il necessario spazio di aggiustamento, tenere conto delle peculiarità dei settori (come i trasporti e alcune industrie manifatturiere) dove i costi marginali di riduzione della CO2 sono maggiori, e non scartare a priori nessuna opzione. Devono, in altri termini, apprezzare e valorizzare le enormi incertezze tra le quali ci muoviamo.  

   


Ragionare in termini di incertezza e  complessità. Le risorse da impegnare, abbandonando la retorica dello stato imprenditore. Il principio primo della politica ambientale: chi inquina paga, chi contribuisce a ridurre l’inquinamento va premiato. Un sistema di tasse e sussidi irrazionale e disordinato. Non c’è una panacea di tutti i mali climatici


    
La chiave di una strategia di lungo termine, allora, richiede un esercizio di umiltà intellettuale. Se nessuno sa, né può sapere, quale sarà il mix ottimo di tecnologie nel 2030 o nel 2050, allora occorre disegnare politiche che stimolino le imprese a sperimentare e innovare, lasciando che sia l’intelligenza collettiva e diffusa del mercato – e non quella gerarchica della politica – a far emergere le risposte migliori. La politica ha un altro compito: costruire un set di incentivi tale da spingere le attività di ricerca e investimento nella direzione giusta. Non basta promuovere l’adozione delle tecnologie esistenti; bisogna impegnare risorse finanziarie, umane e politiche nella ricerca di tecnologie nuove e migliori, abbandonando la retorica dello stato imprenditore per perseguire un modello di “paese innovatore” (per rubare il titolo del libro di Alfonso Fuggetta). La chiave di tutto sta nel principio primo della politica ambientale: chi inquina paga. Chi contribuisce a ridurre l’inquinamento va premiato. A prescindere, in entrambi i casi, da come lo fa. 

   
Non importa il colore del gatto, basta che prenda i topi. Non importa la tecnologia o il comportamento, basta che aiuti ad abbattere le emissioni. Quelli che producono emissioni climalteranti dovrebbero pagare il proprio “diritto” a emettere nella misura in cui lo fanno; e coloro che contribuiscono a ridurre le emissioni dovrebbero essere remunerati allo stesso modo. Al contrario, il nostro sistema di tasse e sussidi è irrazionale e disordinato: una tonnellata di CO2 è tassata diversamente a seconda del processo da cui deriva, degli obiettivi per cui è generata e addirittura delle caratteristiche del soggetto che la emette. Allo stesso modo, un’unità di energia pulita è premiata diversamente a seconda del come, del chi e del perché. Tutto ciò è fonte di sprechi: ci porta a pagare centinaia di euro per ridurre le emissioni di una certa quantità, quando – con la stessa spesa – potremmo evitarne molte di più. Per esempio: qualcuno ha mai calcolato l’effetto concreto dei sussidi ai monopattini voluti dal governo Conte-2? Tale misura ha bruciato circa 200 milioni di euro. Tenendo conto del fatto che, sul mercato europeo delle quote di emissione, il costo di un certificato si aggira attorno ai 30 euro, allocando le stesse somme nei settori a minor costo marginale di abbattimento avremmo potuto evitare tra i sei e i sette milioni di tonnellate di CO2. Abbiamo usato bene o male i soldi dei contribuenti? Abbiamo fatto buona o cattiva politica ambientale? Ciò che è economicamente dannoso è spesso ambientalmente nocivo. 

  
La neutralità in teoria e in pratica

Prendendo spunto dall’ultimo libro di Bill Gates, “How to Avoid a Climate Disaster”, l’Economist della scorsa settimana mette in fila i costi attesi per abbattere le emissioni con diverse tecnologie, dall’auto elettrica (tra le più costose) alla sostituzione del carbone col gas nelle economie emergenti (di cruciale importanza e facilmente accessibile). Ma, aggiunge, queste stime sono altamente incerte e vengono sistematicamente smentite: “Un modo di scoprirlo è imporre un prezzo sulle emissioni di carbonio, in forma di tassa o di schema di cap-and-trade. Questo incoraggerebbe aziende e consumatori a trovare i metodi più economici”. Purtroppo, il carbon pricing è assai complesso dal punto di vista politico: la protesta dei gilet gialli in Francia, in fondo, nacque proprio dal tentativo di finanziare gli incentivi alla mobilità sostenibile aumentando le accise sul gasolio, per di più in un paese che già si era dotato di una carbon tax esplicita. Per questo, le politiche vanno attentamente soppesate e, dove determinano aumenti dei costi dell’energia, è bene che prevedano dei contrappesi. Per esempio, utilizzando il gettito delle imposte ambientali per ridurre le tasse sul lavoro (anziché distribuire sussidi) e prevedendo appositi schemi per alleviare le condizioni di coloro che si trovano in condizioni di povertà energetica.

  
Anche senza spingersi a una riforma complessiva della fiscalità energetica – che pure sarebbe necessaria – si possono immaginare interventi che non pregiudichino la crescita e, anzi, favoriscano una migliore allocazione dei fattori. Facciamo tre esempi. 
Il primo riguarda gli incentivi alle fonti rinnovabili. Sostenerne la diffusione, in particolare nella generazione elettrica, fa parte dei nostri obblighi europei. Tradizionalmente, noi distribuiamo incentivi differenziati per tecnologia: in questo modo, stabiliamo ex ante le quantità, che dipendono dalla generosità del legislatore. E’ un approccio contrario alla razionalità economica. Da anni, le istituzioni europee cercano di spingere gli stati membri verso un atteggiamento di neutralità tecnologica. Un precedente interessante viene dalla Spagna, che qualche settimana fa ha tenuto una gara al ribasso aperta a fonti differenti (assieme a due riservate, rispettivamente, all’eolico e al solare). L’asta ha fatto il pieno, raccogliendo offerte pari al triplo della disponibilità, con prezzi di aggiudicazione per i nuovi impianti fotovoltaici nel range 15-29 euro / MWh e per l’eolico dai 20 ai 29 euro / MWh. Mettere in concorrenza le diverse fonti, a parità di beneficio ambientale, serve a scegliere quelle meno costose: che senso ha pagare cento per produrre energia pulita, quando potremmo ottenere lo stesso risultato con una fonte diversa spendendo cinquanta o venti? C’è poi un altro aspetto. Mentre a Madrid si teneva questa asta innovativa, anche in Italia si svolgevano le procedure per assegnare nuovi incentivi, differenziati per tecnologia: le domande non hanno raggiunto neppure un terzo del contingente messo in gara, mentre i prezzi si sono collocati attorno a 69 euro / MWh. Come si spiega che noi paghiamo tra il doppio e il triplo degli spagnoli? Almeno una parte del delta si spiega con le difficoltà, lungaggini e incertezze autorizzative, un collo di bottiglia spesso insuperabile. Morale della storia: la principale politica pro-rinnovabili, si gioca sia al Mite, sia al ministero dei Beni culturali, dove troppo spesso i procedimenti finiscono per arenarsi. A tal proposito, sarebbe interessante sapere quanti decreti Via sono stati emessi nell’ultimo triennio. Non servono più soldi, ma meno scartoffie. In un paese che spende oltre 12 miliardi di euro di sussidi l’anno per foraggiare le rinnovabili, è un pensiero che dovrebbe suscitare istinti rivoluzionari. 

   

Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, già direttore dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova (LaPresse) 
     

Secondo esempio: l’idrogeno. Tutti ne parlano come di una delle frontiere della decarbonizzazione. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza dello scorso dicembre prevede due miliardi di euro di investimenti, ma li destina unicamente all’idrogeno verde, cioè prodotto attraverso l’elettrolisi dell’acqua alimentata dalle fonti rinnovabili. Perfino sotto le ipotesi più favorevoli, esso ha costi altissimi. Inoltre, sottrae potenza rinnovabile alla decarbonizzazione della rete elettrica, tra l’altro in un contesto dove le autorizzazioni arrivano col contagocce. Non si capisce, allora, l’opposizione ideologica e irrazionale all’idrogeno blu, cioè prodotto a partire dal metano con la cattura delle emissioni di CO2 e il loro stoccaggio (e potenziale riutilizzo). Da un lato, costa meno e – con un prezzo della CO2 sufficientemente alto – può competere col metano nei settori dell’industria e dei trasporti pesanti; dall’altro, rappresenta un volano per la ricerca e sviluppo nella cattura, stoccaggio e utilizzazione (CCS&U) del carbonio. La CCS&U è una tecnologia potenzialmente disruptive, perché può rendere sostenibili anche quelle attività che, allo stato attuale, è troppo costoso e tecnicamente complicato decarbonizzare, come molti processi industriali “hard to abate” (acciaio, cemento, plastica e ammoniaca). Come spiegano Adam Baylin-Stern e Niels Berghout in un documento dell’Agenzia internazionale dell’energia, “limitare la disponibilità della CCS&U aumenterebbe considerevolmente il costo e la complessità della transizione energetica, aumentando la dipendenza da tecnologie che attualmente sono più costose o si trovano in una fase di sviluppo ancora preliminare”. Tra l’altro, diverse imprese italiane si trovano alla frontiera della ricerca sullo stoccaggio e l’utilizzazione della CO2, anche grazie all’esistenza di giacimenti esausti in cui accumulare l’anidride carbonica catturata. 

  
ll terzo esempio riguarda il pilastro delle riforme, spesso addirittura a costo zero. Si tratta di un ambito nel quale l’Italia è stata più volte richiamata. Nelle osservazioni sul Piano energia e clima la Commissione europea sottolinea che “l’Italia trarrebbe vantaggio dall’elaborazione di una tabella di marcia specifica e di un calendario chiaro per realizzare le riforme e le misure previste nel piano definitivo, quali l’eliminazione delle distorsioni dei prezzi, la partecipazione non discriminatoria di nuovi operatori del mercato o l’eliminazione graduale dei prezzi regolamentati; tutti questi provvedimenti sono già stati procrastinati ripetutamente”. L’ultimo (ed ennesimo) rinvio della liberalizzazione elettrica è stato approvato pochi giorni fa su iniziativa grillina, a sfregio dell’impegno di Draghi di promuovere una nuova legge sulla concorrenza mentre quella precedente, risalente al 2017, giace in buona parte inattuata. Ironicamente, negli stessi giorni la Commissione Ue rilasciava uno studio secondo cui la residua regolamentazione dei prezzi è un ostacolo ormai non più giustificabile alla concorrenza. E’ ormai ampiamente documentato che la domanda può avere una funzione cruciale nella transizione energetica, se opportunamente ingaggiata, per esempio con l’introduzione di prezzi variabili in tempo reale. Coi nuovi contatori di seconda generazione sarebbe possibile, ma nei fatti questo è incompatibile con un contesto regolatorio risalente a vent’anni fa e impermeabile al progresso tecnologico, al digitale e al ruolo attivo del consumatore. 

  
In conclusione, se lasciata alle forze del mercato, la decarbonizzazione probabilmente si verificherebbe comunque, ma richiederebbe più anni di quelli che ci siamo dati. Lo stato, dunque, ha uno spazio: ciò non toglie che da qui al 2050 molte cose possano cambiare. Sarebbe assurdo pretendere di dettare le tecnologie dei prossimi trent’anni. Ancora più assurdo pensare che possa esserci una panacea di tutti i mali climatici. Occorre usare i mezzi che abbiamo per valorizzare l’ingegno umano e far leva su milioni di individui e imprese, che posseggono più informazioni, più risorse e più inventiva di pochi decisori seduti a Roma o Bruxelles. Più sussidiamo o, peggio, imponiamo le tecnologie di oggi, più sbarriamo la strada a quelle di domani. Come scrive Friedrich Hayek, “le istituzioni umane nascono dalle azioni umane, non sono il frutto dell’umano progettare: il linguaggio, il mercato e il diritto sono il frutto di un lungo processo evolutivo nel corso del quale le azioni intenzionali provocano continuamente effetti inintenzionali, dando vita a un ordine spontaneo”. Non basta riorganizzare i ministeri per avere la transizione energetica. Occorre anzitutto porre la questione nei termini giusti: non si tratta di dare una risposta, ma di attivare un processo all’interno del quale ciascuno contribuisca a cercarla.