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Si apre la danza per il Colle

Draghi? Per il Quirinale non c'è più il Predestinato

La nascita del governo Draghi riduce le chance per l'ex capo della Bce di succedere a Mattarella. E tutto si riapre. Chi si prepara, chi si lecca i baffi, chi tifa per il bis. Caos e giochi futuri. Guida preventiva

Claudio Cerasa

Se è vero che il candidato numero uno al Quirinale oggi ha meno possibilità di succedere all'attuale Capo dello stato rispetto a qualche mese fa è lecito tornare a chiedersi chi è che potrebbe politicamente beneficiare di questa imprevista circostanza politica.

Ad alcune persone fidate, pochi giorni prima di ricevere la fiducia dal Parlamento, Mario Draghi, mentre ragionava sul suo programma di governo, ha raccontato una verità a cui forse è difficile credere, ma che a giudicare dalla mole impressionante di progetti annunciati ai parlamentari della Repubblica potrebbe essere qualcosa in più di una semplice illazione. Non sappiamo se è per scaramanzia o per convinzione, ma Mario Draghi oggi è intimamente convinto che nell’istante stesso in cui ha ricevuto dal presidente della Repubblica l’incarico di formare un governo il suo nome non sia più in campo per la successione a Sergio Mattarella.

 

Al contrario di quanto si potrebbe credere, Mario Draghi non considera il suo impegno a Palazzo Chigi come un impegno a tempo o come un perfetto trampolino di lancio per poi succedere il prossimo gennaio all’attuale capo dello stato ma considera l’impegno preso con il paese come la strada forse più complicata per tentare la carta della scalata al Quirinale. Non si tratta solo di una questione legata alla grammatica parlamentare – nella storia d’Italia ci sono stati ex presidenti del Consiglio scelti successivamente come capi dello stato, l’ultimo è stato Carlo Azeglio Ciampi, ma nella storia d’Italia non è mai successo che un presidente del Consiglio sia arrivato al Quirinale partendo direttamente da Palazzo Chigi e in fondo lo stesso Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale, nel 1999, ci arrivò non da capo del governo ma da ministro dell’Economia del governo D’Alema.

 

Si tratta invece di un tema più delicato, più sottile, più politico, che Draghi vede con chiarezza e che ha a che fare con un’inerzia forse inevitabile di questa esperienza di governo: l’impossibilità quasi matematica per Draghi di trasformare il governo delle larghe intese nel governo dell’unanimità.

 

Draghi è lì per decidere, non per mediare, e chi è lì per decidere è destinato a dividere, a scontentare, a far imbronciare. E non c’è dubbio che in vista dell’appuntamento del rinnovo del Quirinale (gennaio 2022) un Draghi lontano dalla politica avrebbe avuto chance notevolmente superiori di arrivare al Colle rispetto a un Draghi impegnato già oggi in politica. Forse è una malizia ma forse invece non ha torto chi in questi giorni, tra i big dei partiti, ha mostrato entusiasmo per la scelta di Draghi non soltanto per una ragione legata all’interesse del paese ma anche per una ragione diversa, legata ad alcuni genuini interessi personali che potremmo volgarmente sintetizzare così: se è vero che il candidato numero uno al Quirinale oggi ha meno chance di succedere a Mattarella rispetto a qualche mese fa è lecito tornare a chiedersi chi è che potrebbe politicamente beneficiare di questa imprevista circostanza politica.

   

Giocare al totonomi a undici mesi dall’elezione del presidente della Repubblica non ha molto senso (anche se un nome alla fine di questo articolo lo faremo) ma ciò che può avere invece senso è provare a fotografare il posizionamento delle monoposto che si preparano ad affrontare la gara politica più importante dei prossimi anni. Intanto c’è una questione di numeri importante (servono 505 grandi elettori per eleggere il capo dello stato dalla quarta votazione in poi) che ha a che fare con le fibrillazioni politiche registrate negli ultimi giorni nel mondo del M5s e che determinano di fatto una condizione politica nuova.

   

Punto importante: all’interno del perimetro della maggioranza di governo, coloro che fanno parte dell’intergruppo formato dai partiti che hanno sostenuto il governo Conte oggi si trovano in minoranza rispetto all’intergruppo formato da Lega e Forza Italia e se a questi voti vengono aggiunti i voti di Fratelli d’Italia si capirà che nella partita del capo dello stato il centrodestra alla fine potrebbe avere i numeri per contare di più dei suoi avversari, che molto avevano fatto in questi mesi per evitare di andare alle elezioni anche per non regalare al centrodestra la possibilità di poter eleggere in autonomia un capo dello stato sovranista.

 

E i numeri che cosa dicono? Dicono che – considerando i voti ribelli del M5s e considerando i voti contrari e gli astenuti degli altri partiti durante la fiducia a Draghi – allo stato attuale le squadre si presentano così distribuite in campo. Il centrodestra, tutto unito, può contare su 428 grandi elettori (189 la Lega, 140 Forza Italia, 52 Fratelli d'Italia, 13 il gruppo Misto-Cambiamo, più la bellezza di 34 grandi elettori delle regioni). Il centrosinistra, inteso nella sua versione intergruppo, può contare su 413 grandi elettori (246 il M5s, 152 il Pd, 15 Leu). I partiti di centro possono contare su 58 grandi elettori (52 di Italia viva e sei di Azione e +Europa). E se si considera che i gruppi dei partiti durante le votazioni segrete di solito perdono tra un quinto e un sesto dei voti per strada (ai tempi del no a Prodi, nel 2013, il gruppo parlamentare del Pd perse per strada un voto su quattro) è evidente che i numeri non tornano e che in mancanza di un accordo d’acciaio fra tutti i partiti che fanno parte del governo Draghi (che ha ricevuto 797 voti, 125 voti in più rispetto a quelli necessari per essere eletti con la maggioranza dei due terzi nel corso delle prime tre votazioni per la scelta del capo dello stato) non sarà facile trovare una combinazione semplice per eleggere dopo il quarto scrutinio il successore di Sergio Mattarella.

 

La fotografia in questione può essere poi corredata da una suggestione che riguarda un tema che vive da mesi sottotraccia all’interno di questa legislatura e che riguarda un volto che oggi non è in corsa per il dopo Mattarella ma che per forza di cose lo potrebbe diventare qualora fosse chiamato in causa dai partiti a svolgere la sua funzione di guida per togliere l’Italia da una situazione di palude e ingovernabilità in caso di incidenti sul percorso quirinalizio: la riconferma di Sergio Mattarella. Nessuno dubita che Mattarella sia sincero quando dice che non esiste l’opzione della sua riconferma ma i fattori che potrebbero portare a un suo bis oggi sono molteplici e vale la pena elencarli. Potrebbe volerlo a sorpresa il centrodestra, per non avere nella prossima legislatura un capo dello stato eletto da una maggioranza anti salviniana. Potrebbe volerlo il M5s, per trovare un nome sul quale far convergere i voti di tutto il gruppo parlamentare e anche qualcosa di più. Potrebbe forse non volerlo il Partito democratico, all’interno del quale il numero di candidati al dopo Mattarella raggiunge una cifra simile a quella dei grandi elettori, saremmo intorno al migliaio di candidature, ma anche in questo caso il nome di Mattarella potrebbe essere l’unico capace di far fare un passo indietro a tutti i pretendenti al trono. Ma potrebbe volerlo anche lo stesso Mario Draghi in una logica difficile da mettere a fuoco oggi e che pure potrebbe essere qualcosa di simile a una staffetta: bis di Mattarella per un periodo limitato di tempo (il bis di Giorgio Napolitano è durato 18 mesi) con tentativo di passaggio di consegne a Mario Draghi magari al termine di questa stessa legislatura (anche perché se è vero che Draghi è il governo del presidente immaginare un governo Draghi con un altro presidente potrebbe non essere così agevole).

 

Difficile scegliere oggi dal mazzo delle opzioni per il dopo Mattarella. Più facile invece mettere insieme alcune mezze certezze: il governo Draghi (per la non gioia dei leader della Lega e del Pd) è un governo che ha un programma di legislatura; un presidente del Consiglio costretto a fare scelte anche impopolari è destinato a non essere un leader eternamente unitario; e un movimento ingovernabile come quello grillino, che resta comunque il primo gruppo parlamentare, rende difficile la nascita di alleanze capaci di mettere in discussione lo status quo. Le danze per il Quirinale sono partite. Draghi è in campo. Ma forse oggi lo è un po’ meno di qualche settimana fa.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.