Giuseppe Conte e Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Pensieri e parole di Di Maio su Conte, che s'è infilato nel tunnel del Mes

Salvatore Merlo

La strategia del pibe de oro di Pomigliano: aspettare a bordo fiume il cadavere del presidente del Consiglio

Roma. Qualche tempo fa, volendogli fare un complimento esagerato – ma non c’è complimento senza esagerazione – Gianni Letta si è rivolto a Luigi Di Maio definendolo, in privato, “il nuovo Andreotti”. E chissà se era anche all’antica ginnastica della doppiezza democristiana che si riferiva il gran ciambellano del berlusconismo. Probabilmente sì. E in effetti, il giovane Luigi avrà anche difficoltà a esprimersi correttamente in italiano, così come ha certamente una spiccata diffidenza nei confronti del congiuntivo e persino della geografia elementare (malgrado sia ministro degli Esteri) eppure lo stesso uomo che chiama “Ping” il presidente della Cina, è poi capace di piccole, astute e felpate mosse politiche che in queste ore eccitano la letteratura di Palazzo. Piena com’è di favole torbide intorno alla sua presunta (e vera) rivalità con Giuseppe Conte

 

E infatti tutti, tra i grillini e nel Pd, sanno bene che Di Maio è capacissimo, volgendo le spalle e dandosi brace sul volto, di ordire fantasie velenose sotto la fronte liscia. Ieri, per esempio, in un’intervista alla Stampa, il giovane ministro ha detto a proposito del Mes (e di Conte, che contro il Mes ha ripreso a fare il duro): “È meglio che io non intervenga direttamente sul tema, per non indebolire le trattative. Il presidente del Consiglio ritiene che sarà sufficiente il Recovery fund e io non dubito delle sue parole”. Quale splendida malizia! Lo vuole incastrare alle sue stesse parole, all’ostentata (finora) contrarietà del presidente del Consiglio al Mes, costruirci insomma con quelle parole un nodo e stringerlo al collo di Conte, poiché tutti sanno, persino i grillini, che il Mes serve e che alla fine non si potrà dire di no. E allora: “Ti sei messo nell’angolo e adesso ti ci tiri fuori da solo”, è il messaggio riposto nelle parole di Di Maio, che a quanto pare adesso osserva i patemi del presidente del Consiglio con lo sguardo di un avvoltoio satollo.

 

Il ministro ritiene infatti che Conte abbia fatto negli ultimi tempi una campagna contro il Mes come manco il Movimento 5 stelle più descamisado. Che, in pratica, si sia fin troppo esposto, sbilanciato. Prima con un video, poi con le interviste in cui ripeteva con regolarità che del Meccanismo salva stati l’Italia non ha bisogno, fino alla risposta stizzita nei confronti della Merkel che tanto, pare, ha fatto arrabbiare con Rocco Casalino l’ambasciatore Benassi, cioè il consigliere diplomatico di Conte. E allora, dice Di Maio (e quasi viene da immaginarselo con un sorrisetto a filo d’erba): perché non dobbiamo prendere per buono quello che dice il presidente del Consiglio? “Vai, vai, vediamo come ne esci”. Tattica, e un po’ di sadismo. Lo aspetta al varco della non inverosimile marcia indietro, del tramestio parlamentare nella maggioranza, delle trattative sul Mes tra Forza Italia e un Pd che dà manifestazioni più che evidenti di insofferenza nei confronti di Conte. Tutte cose che, nell’atmosfera rarefatta del Parlamento e dei corridoi ministeriali, alimentano leggende intorno alle ambizioni di Di Maio rivolte a Palazzo Chigi. Storie, evanescenti, intorno alle sue conversazioni ultra-amichevoli con Dario Franceschini, tutto quel genere di scambi che nel pissi pissi di Palazzo, nel telefono senza fili, si trasforma nel brutale e dunque poco credibile baratto: “Io faccio il presidente del Consiglio adesso al posto di Conte e poi tra due anni, caro Franceschini, ti faccio votare presidente della Repubblica”. Fantasie, o quasi.

 

Eppure qualcosa di vero deve esserci, se persino dalle parti del Quirinale, nei ragionamenti analitici, si manifesta una certa inquietudine sulla tenuta della maggioranza e del governo. “Strane asimmetrie”, è l’espressione quirinalizia. D’altra parte, dal punto di vista di Luigi, la vita di Conte è stata fin qui sin troppo facile, fastidiosamente facile, liscia come una tavola ben apparecchiata da altri. Persino i rapporti tra Conte e gli strambi grillini, pensa Di Maio, sono sempre stati mediati dal cuscinetto del capo politico, cioè da Di Maio stesso, fino a qualche mese fa. Conte poteva dunque aprire sulla Tav, violare qualsiasi tabù pentecatto, e malgrado ciò evitare l’attrito con i mattoidi, “perché c’ero io” (cioè Luigi). Così, adesso che il premier prende posizioni più in linea con la base M5s, cercando anche un asse con Grillo, ora che Conte forse pensa a entrare nel M5s e non più alla federazione con il Pd, ecco che Di Maio più che mai non ha interesse a proteggerlo. Anzi. Incrocia le braccia, osserva, e un po’ se la ride: hai voluto la bicicletta, vediamo se non cadi alla prima buca. Ma questo è ciò che Di Maio confessa solo agli amici. Poi incredibilmente, dotato di democristiana doppiezza malgrado il semianalfabetismo, riesce a consegnare questo esatto pensiero in un’intervista, ma vestendolo di parole che sanno di zucchero.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.