Susanna Ceccardi (foto LaPresse)

Difendere soltanto “le nostre donne” e non tutte le donne: un brutto tic

Maurizio Crippa

Il guinzaglio di Ceccardi, i film di Ferreri e l’uso delle metafore

Nessuno s’indignerebbe se si scrivesse che Salvini, indeciso com’è tra tornare in piazza o parlamentarizzare se stesso, si ritrova come l’asino di Buridano (però è meglio spiegarlo ai suoi: non è un modo per dargli del somaro). Se si scrivesse che Giuseppi è il tipo di politico che fiuta l’aria, non sarebbe per dargli del cane da caccia. Le metafore zoomorfe sono così frequenti e anestetizzate da essere diventate insapori e inodori. Ma se invece di un politico uomo c’è un politico donna, qualcuno che razzola nel pollaio (si può dire?) e fa confusione si trova sempre. A costo di sostenere che il candidato del centrosinistra in Toscana, Eugenio Giani, ha usato “parole volgari e sessiste” contro l’avversaria, l’eurodeputata Susanna Ceccardi della Lega, affermando che “Matteo Salvini si porta dietro al guinzaglio una candidata”. Non le ha dato della “cagna”, come risulta evidente a tutte le persone alfabetizzate (a tutti noi che alle elementari hanno insegnato che “bere un bicchiere” non significa sgranocchiarsi un coccio di vetro). Ma siccome la politica è poverella, e il linguaggio oramai anche peggio, la signora Ceccardi s’è appesa al filo tenue delle parole: “Non voglio fare la vittima, una certa sinistra griderebbe allo scandalo se un nostro esponente dicesse a una donna dello schieramento avversario che è buona soltanto a stare al guinzaglio come una cagna”. E dietro a lei tutti gli altri, verrebbe da dire come una muta di cani che ha fiutato la facile preda, ma ce ne guardiamo bene. Elisa Montemagni, capogruppo regionale della Lega, è “allibita e disgustata. Un’esternazione da condannare profondamente, una vera e propria caduta di stile”. Per Edoardo Ziello, deputato pisano della Lega, Giani “è scivolato sul sessismo più becero”. Per tralasciare i commentatori. Più che polemica, verrebbe da dire uno starnazzare di oche (ops), non fosse che viene da un partito il cui leader esibì una bambola gonfiabile in un comizio definendola “una sosia della Boldrini” e da una parte politica che adora Trump, quello che le donne le afferrerebbe per una nota metafora zoomorfa. (Suvvia, anche i più pudibondi saprebbero snocciolare un catalogo di “eufemismi osceni” di natura animale pertinenti ai sessi: qualcuno se ne scandalizza più?).

 

 

Ma c’è di mezzo una donna, e le cose si complicherebbero un poco, a volerle prendere più seriamente. Nessuno oggi titolerebbe non un film, ma nemmeno un articolo di giornale “Non toccare la donna bianca”. Roba da arresto. Del resto già allora c’era chi lo avrebbe arrestato, Marco Ferreri – uno che capì la guerra dei sessi con qualche decennio d’anticipo – quando s’inventò un improbabile Ugo Tognazzi “indiano” (uso antico per “nativo”) che cercava di vincere al baratto nientemeno che Catherine Deneuve. E lo avrebbero arrestato anche prima, quando raccontò il sessismo della “Donna scimmia” o dell’“Ape regina”, brutte attribuzioni femminili. Eppure, erano metafore zoomorfe per dire il contrario del maschilismo. Nessuno oggi s’arrischierebbe più a dire “non toccare la donna bianca”, nemmeno omettendo il “bianca”, ma l’atteggiamento per cui – in fondo – più che un naturale rispetto c’è qualcosa da difendere o da annettersi, semplicemente perché è diverso, rimane nel doppiofondo delle parole.

   

 

Così che quando i leghisti dicono “se una frase del genere fosse stata pronunciata da un rappresentante della Lega verso una donna avrebbero invocato la corte marziale, ma si sa che a quelli di sinistra è permesso tutto”, la sparano grossa ma non sbagliano troppo il bersaglio. La verità nascosta è che, bianche o nere, ognuno difende malamente e soltanto “le proprie donne”. Anzi meglio “amiche”. Ci si indigna a sinistra, in modo sacrosanto, per le battutacce contro Boldrini o Boschi o Ocasio-Cortez (per tacere di Mutty Merkel) e in questo caso da destra si strilla alla censura del linguaggio. Ma quasi mai si alza una parola per “la donna degli altri”. Perculare o anche proprio offendere le mamme meloniane “che non ce lo potrete togliere” non paga mai pegno. E tutto questo, molto spesso, non è opera solo dei maschi, è fatto da donne contro donne. E questo è bassezza della politica. Ma c’è di mezzo una donna, e la politica e il linguaggio c’entrano meno. C’entrano i pensieri nascosti. Basterebbe invece pensare che le donne (bianche o nere) non sono né nostre né loro, sono semplicemente “loro”. Non è la politica, non è il linguaggio, non è il gender. E’ che siamo ancora delle tribù.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"