(foto LaPresse)

Un liberale atipico

Giuseppe De Filippi

Moderno e insieme ottocentesco. Alfredo Biondi, il politico sempre un po’ sconfitto, anche nelle vittorie

Roma. Sempre un po’ sconfitto anche nelle vittorie, sempre fuoriposto anche se apparentemente ben sistemato. Alfredo Biondi aveva ogni volta una parola o un gesto in più, e spesso ottime ragioni, per non essere proprio in accordo con il mondo. Nel 1985 se ne stava seduto da solo al centro di una fila di sedie nella sala conferenze del residence Ripetta. Stava per ottenere un voto dal consiglio nazionale con cui sarebbe diventato segretario del Partito liberale. Stava per vincere ma guardava il palco con aria di sfida, tenendo un braccio sullo schienale della poltrona di destra e uno sulla poltrona di sinistra. Abbracciava due poltrone vuote mentre era prossimo ad avere la guida del partito. Sentiva la caducità di quel mandato. Intervistato a caldo, con stile da tg anni Ottanta, dove va il Partito liberale? risponde senza fare giri retorici ma anche preso un po’ di sorpresa dalla stessa ovvietà della domanda: va avanti. E andò avanti il Pli facendogli subito la guerra. Biondi aveva vinto il consiglio nazionale, dopo le dimissioni di Valerio Zanone, accettando i voti della corrente di destra guidata da Egidio Sterpa.

 

I colonnelli, di formazione zanoniana, che lo avevano sostenuto, volevano che la segreteria Biondi prendesse sì i voti della componente di Sterpa ma il rapporto doveva finire lì, continuando a trattare gli sterpiani come infrequentabili. Biondi crede in quella strategia ma vi resta invischiato. Due anni dopo, al congresso nella sua Genova, è battuto da Renato Altissimo, più zanoniano di lui ma disposto a dare alla componente di destra del Pli spazio e soprattutto riconoscimento politico e visibilità. Altissimo spingeva sulla transizione produttiva e parlava di automazione fino a citare le fabbriche senza operai. Biondi, al volo, replicò dicendosi vicino agli operai senza fabbriche. Perché non amava e non predicava la visione tutta economica del liberalismo. Ma la vittoria, dopo due anni di lavoro correntizio spietato, non poteva che essere di Altissimo. Biondi era un tipo di liberale moderno e insieme ottocentesco. Zanone era un intellettuale formato per fare il dirigente politico, Altissimo un imprenditore molto ricco tirato su nel recinto protetto dei giovani di Confindustria, Biondi un avvocato penalista. Chiaro che avessero tre visioni diverse del liberalismo applicabile all’Italia. Poi arrivano il ‘92 e il ‘94. Biondi, come molti sconfitti liberali, ha una nuova chance con Forza Italia. Lui ha fatto già il ministro due volte negli anni Ottanta, Ecologia, primo nella storia, e Affari europei, dentro al quadro ordinato dei governi di coalizione con la Dc in funzione di perno. Gli tocca con Silvio Berlusconi la Giustizia due anni dopo l’esplosione di Mani pulite. Firma il famoso decreto che cambiava i criteri per la carcerazione preventiva, limato fino all’ultimo, anche con interventi del capo della polizia, Parisi, a fare da mediatore tra il ministero e il Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro.

 

L’ultima correzione è per togliere la violazione di sepolcro e il vilipendio di cadavere dalla lista dei reati per i quali escludere la carcerazione preventiva. Poi la nota insurrezione della procura con la barba non fatta e dei magistrati stralunati, sconvolti dalla privazione dell’ammanettamento di chi doveva confessare e chiamare in correità, e in seguito di molti cittadini. Biondi lo sapeva che sarebbe finita così ma accettò il ruolo difficile. Confortato dai numeri successivi e cioè da 2.400 scarcerati ex decreto Biondi dei quali solo 50 vennero riarrestati quando anche per la spinta di Lega e Alleanza nazionale il decreto fu abolito. Fino all’ultimo, da conoscitore dell’ambiente politico/giurisdizionale, aveva tentato di fermare il gioco su un semplice disegno di legge. Niente da fare, però. Ed è Biondi a finire nel tritacarne mediatico e non solo, con la questura che lo mette sotto scorta (dalla quale spesso fuggiva) e lui stesso a scherzare sulla mostrificazione e banalizzazione della sua storia politica, dicendo che molti ormai pensavano che si chiamasse di nome non Alfredo ma Decreto. E’ rimasto sempre un grande penalista, innamorato della professione. Fino a rifiutare la carica di giudice costituzionale perché gli avrebbe precluso l’avvocatura. Era sempre un po’ sconfitto anche in una vita vittoriosa e più ricca di mille altre vite. Si sentì sconfitto anche in Forza Italia, o meglio nel Pdl, deluso dalla fine dell’esperienza di allargamento della guida del partito a Gianfranco Fini. E Biondi, senza chiedere “che fate?”, si cacciò da solo, tornando in un esangue Pli. Un po’ lo ha sconfitto il destino, con il colpo crudele, recentissimo, della perdita del figlio Carlo, avvocato che proseguiva la tradizione familiare. Dopo quella fine il vecchio ministro e segretario ha resistito, sempre abbracciando sedie vuote, per soli sei mesi.

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