Luciano Pellicani (foto LaPresse)

Luciano Pellicani, l'intellettuale che prese molto sul serio il comunismo

Carlo Lottieri

Contro il totalitarismo, per il capitalismo. Un ricordo dello studioso scomparso

Gli articoli dedicati a Luciano Pellicani, in occasione della sua recente scomparsa, hanno in vario modo sottolineato come questo studioso, nel corso della sua ricerca intellettuale, sia sempre rimasto ancorato alla tradizione socialista e come nel suo pensiero sia stata costante l’attenzione alle ragioni della sinistra riformista. Tutto questo è vero, eppure va egualmente evidenziato quanto egli abbia mostrato un’attenzione peculiare al capitalismo e al suo legame con le libertà individuali.

 

 

In qualche modo, tutto muove da Marx e lì ritorna. Perché quando, negli anni dell’università, il giovane Pellicani abbandona il marxismo è costretto a confrontarsi con due grandi questioni: quella del totalitarismo e quella del capitalismo. Come ha ricordato in queste ore il suo amico e collega Dario Antiseri, “negli anni in cui l’egemonia comunista era imperante, Pellicani è stato un grande difensore della libertà”, proprio perché ha voluto esaminare la teoria marxiana anche nei suoi prodotti storici: come farà, in Francia, il gruppo dei “nuovi filosofi”. Da qui vengono in particolare i suoi studi Marxismo e leninismo del 1966, Gulag o utopia? del 1978 e Rivoluzione e totalitarismo del 1992 (ma molti altri titoli si potrebbero ricordare). Non a caso, in anni più vicini, fece molto discutere un suo studio su Lenin e Hitler: i due volti del totalitarismo, nel quale evidenziava i punti di contatto tra la violenza politica iscritta nel comunismo e nel nazismo.

 

D’altra parte Pellicani appartiene a una generazione di intellettuali che ha preso molto sul serio il comunismo e che, per certi aspetti, è stata costretta a farlo: sia aderendo a esso (come accadeva ai più), sia rifiutandolo. Il dibattito degli anni Sessanta e Settanta era tutto centrato su tesi e questioni che affondavano le loro origine nelle analisi del Capitale, e questo aiuta a capire anche per quale ragione il tema del mercato e della modernizzazione industriale sia tanto cruciale negli scritti del sociologo della Luiss recentemente scomparso.

 

Da questo punto di vista, il riformismo di Pellicani è molto distante dal socialismo liberale di Norberto Bobbio, che in definitiva adotta la democrazia liberale e lo stato di diritto, ma non coglie la centralità del capitalismo. Pellicani invece si confronta direttamente con le questioni centrali del pensiero politico di Marx, soprattutto perché non accoglie in alcun modo la tesi circolare avanzata dal filosofo tedesco, che fa derivare il modo di produzione capitalistica dalla separazione tra gli apparati industriali e il lavoro: e cioè dalla definizione stessa, nel sistema di Marx, di quello che il capitalismo è o sarebbe.

 

La prospettiva di Pellicani, invece, risente molto della lezione di Jean Baechler, che egli aveva fatto pure scrivere sulle colonne della rivista da lui diretta, MondOperaio. Secondo lo studioso liberale francese e secondo lo stesso Pellicani (si veda il Saggio sulla genesi del capitalismo, del 1988: le cui tesi sono molto in linea con il volumetto Le origini del capitalismo, scritto nel 1971 da Baechler), le libertà moderne del mercato concorrenziale hanno le loro radici nell’anarchia feudale: nel fatto che il duro conflitto tra Impero e Papato non ha visto nessuna di queste due istituzioni imporsi. In tal modo, lo spazio europeo è stato caratterizzato da una dispersione del potere e da una polverizzazione del dominio che hanno permesso lo sprigionarsi di quelli che Keynes definirà “gli spiriti animali del capitalismo”. 

 

L’Europa del progresso e dell’espansione delle “libertà dei moderni” – per usare la formula di Benjamin Constant – è stata allora in larga misura costruita da quegli imprenditori, artigiani, banchieri e mercanti che hanno potuto sfruttare gli interstizi tra un potere e l’altro: grazie a quel formidabile meccanismo di checks and balances fatto di piccoli poteri locali contrapposti su cui, in seguito, costruirà le proprie fortuna quell’America dei coloni destinata a rendere possibile il miracolo statunitense e il sorpasso, già negli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo, nei riguardi del Vecchio continente.

 

In questo senso, la necessità d’interrogarsi su come potremo ricostruire la società italiana dopo la disfatta economica, sociale e istituzionale che il coronavirus ha in parte causato e in parte evidenziato dovrebbe indurci a rileggere quelle preziose pagine di Pellicani, che certo rimase socialista per tutta la vita (sempre persuaso che lo stato avesse il compito di agire in funzione redistributiva), ma che egualmente aveva compreso – come lo stesso Marx, per giunta – che solo il mercato e la libera concorrenza erano usciti a strappare l’umanità da lunghi millenni dominati da miseria, scarsità, autarchia e tribalismo.

 

Se da lì è nato tutto, è da lì che bisogna ripartire.

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