Luigi Di Maio (LaPresse)

Di Maio #senzadime

Valerio Valentini

Vuole restare ministro, ma non vuole cedere all’abbraccio tra Pd e M5s. Per questo Giggino molla, ma non troppo

Roma. Dario Franceschini la chiama “la forza dell’inerzia”: è quella che porterà, se non altro per spirito di conservazione, il M5s nel campo del centrosinistra. Ed è forse la stessa forza che ha convinto Luigi Di Maio, assai pessimista sull’esito del voto in Emilia-Romagna, a compiere l’estremo gesto di dimettersi – cuor di leone – a quattro giorni dalle elezioni. Almeno è così che in parecchi provano a motivare una scelta che altrimenti andrebbe spiegata come un semplice atto di follia. “Di Maio – spiega Enrico Borghi, deputato dem di fede gueriniana – evidentemente ha percepito che la spinta interna al M5s verso una collocazione stabile nel campo del centrosinistra era irreversibile. E non potendo fermarla, prova a non restarne travolto”. Perché del resto, a predicare un ancoraggio a sinistra, c’è praticamente tutta la delegazione di governo a cinque stelle, da Vincenzo Spadafora a Stefano Patuanelli passando per Federico D’Incà; c’è Giuseppe Conte e i due dioscuri che al premier sono sempre più vicini, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede ( nuovo capo delegazione in pectore). E poi, ovviamente, c’è Beppe Grillo, che “ormai nei suoi discorsi – scherza Laura Castelli – cita la sinistra venti volte al minuto”. Di Maio no.

 

“Luigi ha un’altra formazione culturale”, spiega il senatore Vincenzo Presutto, responsabile Economia nella segreteria politica. Il quale, uscendo dalla riunione che il reggente Vito Crimi ha convocato con tutti i “facilitatori” dice che “sì, nella carta dei valori da approvare agli Stati generali di marzo si dovrà fare chiarezza sulla collocazione politica del M5s”. La scelta del capo verrà dopo, tramite Rousseau. “Prima dobbiamo stabilire se e come intendiamo collocarci nel solco progressista. Ma di certo, nessuno di noi, nel fare questa scelta di campo, spinge per andare nel centrodestra. C’è una sinistra latente”, prosegue Presutto, “che si va riaggregando. C’è il Pd ormai derenzizzato, c’è De Magistris, Leu, ci sono le Sardine che faranno il loro primo congresso nazionale a Scampia a metà marzo. E, appunto, ci siamo noi”.

 

Quelli, cioè, che si vantavano di essere trasversali, postideologici. “Ma ‘postideologici’ è un termine carino per definire gli ignoranti”, sbotta l’ex ministro Lorenzo Fioramonti, fuoriuscito dal M5s che, pur senza dirlo, non esclude il ritorno. “Non parlo per me: ma i tanti parlamentari espulsi perché denunciavano delle storture nella struttura del M5s, ora non meriterebbero quantomeno delle scuse? Certo, anch’io sono stato un precursore, nel senso che ripeto da molti mesi che non c’è trasversalità che tenga, su certi temi, che il M5s deve ancorarsi al riformismo di sinistra. Poi, sul mio futuro, vedremo”. 

  

Su quello del governo, invece, molto dipenderà dall’Emilia. “Io sono convinto che vinceremo”, dice il ministro dem Francesco Boccia. “Ma in ogni caso, la sfida così polarizzata spingerà in alto sia il Pd sia la Lega”. Col M5s che finirà schiacciato nell’irrilevanza. “Per questo – prosegue Boccia – la nostra sfida sarà, a partire da martedì, quella di indicare con chiarezza alcuni punti chiari, e imporli nell’agenda di governo”. E a quel punto, a un M5s uscito con le ossa rotte dalle urne e che però vuole sopravvivere ancora un po’, non resterà che cedere. Dai decreti sicurezza, alla prescrizione e alla revoca della concessioni autostradali (“Di Maio sa bene che non ci sarà mai”, sbuffa Gianluigi Paragone). Ed è questo, più che il dovere commentare una disfatta elettorale che comunque a lui verrà attribuita nonostante la sua fuga conigliesca, che l’impavido pomiglianese teme: è da questo che è scappato. Lui, con la svolta a sinistra del M5s, non vuole avere nulla a che fare.

   

E lo dimostra anche la sentenziosità con cui liquida i progetti di chi, più di altri, in quella svolta ci spera: “Patuanelli ha in mente un riformismo del secolo scorso”, sibila Di Maio). Il quale, certo, condivide semmai il pensiero del probiviro Jacopo Berti, secondo cui “quello col Pd per noi è un abbraccio mortale, mortalissimo”. E però è un abbraccio che Di Maio non riuscirà a evitare, pare, neppure a casa sua, in quella Campania dove il M5s un accordo col Pd in vista delle regionali di maggio lo vuole eccome . “Secondo me è la strada migliore, ovviamente non con Vincenzo De Luca come presidente, e neppure con la nostra Valeria Ciarambino. Ma magari con una figura come quella del ministro Sergio Costa”, dice il senatore di Portici Sergio Puglia. “Si troverà l’accordo, ma al momento giusto”, conferma Maria Pallini, pure lei nella segreteria politica nazionale. “E il momento giusto è dopo l’Emilia”, spiega la deputata. Perché lunedì, specie in caso di disfatta di Bonaccini, rafforzare l’alleanza tra Pd e M5s sarà l’unica soluzione per puntellare il governo. La forza della paura, insomma, forse è più efficace perfino di quella “dell’inerzia”.

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