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Nel Pd tutti si attrezzano per fare un congresso vero, ma Zingaretti ha una carta da giocare

Salvatore Merlo

Il segretario del Partito democratico è alle prese con i Cinque stelle, ma gli sta per scoppiare un congresso tra le mani

Roma. Tutti fanno il suo nome, lui smentisce, ma la corrente più numerosa del Pd e un tempo renziana (Base riformista) vorrebbe davvero candidare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori alla segreteria del partito. Ed ecco così che all’orizzonte, sullo sfondo di un governo debole e periclitante, comincia a intravedersi il profilo di un congresso del Pd che potrebbe vedere contrapposte due idee nemmeno tanto compatibili di centrosinistra. Un sindaco riformista contrapposto ad Andrea Orlando, l’attuale vicesegretario, il “predestinato”, “l’ultimo comunista”, sostenuto dalla sinistra interna del partito compresi i tre ministri Paola De Micheli, Peppe Provenzano ed Enzo Amendola. E così, se sulla durata del governo le previsioni sono incerte, altrettanto lo sono quelle sulla durata di Nicola Zingaretti in segreteria. Per capirlo, come spesso capita, basta osservare Dario Franceschini. 

 

“Faccio il sindaco, mi rimane poco tempo per occuparmi di altro figurarsi fare il segretario del Pd”, dice allora Giorgio Gori al telefono. “Ma penso pure che il Pd abbia bisogno di qualcuno che al suo interno riequilibri la barra su posizioni riformiste, meno nostalgiche del passato”, aggiunge. “E credo che i sindaci possano dare un contributo”. D’altra parte è proprio ai sindaci che guardano Luca Lotti e Lorenzo Guerini, eredi del pacchetto di maggioranza ex renziano dentro al partito. Ed è a un sindaco che pensano, quando immaginano il prossimo segretario: dunque Gori, il nome che ripetono in continuazione, anche se Guerini ogni tanto insiste di più su Dario Nardella, il sindaco di Firenze. Ma di questa partita, composta di suggestioni, contatti, incontri e telefonate, fanno parte anche il sindaco di Milano, Beppe Sala – “il perfetto candidato premier”, è l’esclamazione di un anonimo leader toscano del Pd (lo statuto ha eliminato l’automatismo tra il ruolo di segretario e quello di candidato premier) – e infine anche il sindaco di Bari, Antonio Decaro. Che succede se – “Dio non voglia” dicono nel Pd – le elezioni in Emilia-Romagna dovesse vincerle la Lega? O se per caso le vincesse il Pd, ma di pochissimo? Ecco la risposta: ci vuole un nuovo segretario, un segretario-sindaco, com’era Renzi. E che la cosa sia verosimile lo crede forse lo stesso Matteo Renzi, ormai concorrente del Pd. Circa dieci giorni fa, al tavolo con i rappresentanti dell’Anci, cioè l’associazione dei comuni, Luigi Marattin, renzianissimo, aveva manifestato alcuni dubbi sull’opportunità di affidare proprio ai comuni l’erogazione del bonus asili nido. Insomma, dicono i maliziosi, Renzi tenterebbe di sabotare uno dei principali strumenti di consenso di cui potrebbero disporre i sindaci. Chissà.

 

Certo, un segretario il Pd ce l’ha ed è stato eletto appena il 17 marzo scorso. Eppure non c’è nessuno che non percepisca, dentro e fuori dal Pd, la debolezza di Nicola Zingaretti. E dunque tutti si preparano, lanciano messaggi di fumo, studiano traiettorie, in un gioco tattico che è vero ma anche falso, simula la realtà e dà vita a un complicato gioco di specchi. Dario Franceschini, per esempio, certamente il più ginnasticato tra i navigatori di rivolo e di corrente,    teme che la debolezza politica di Zingaretti spinga il segretario a ricercare le elezioni anticipate per consolidare così la sua leadership sul partito, diventare il capo unico dell’opposizione e ridurre a più miti consigli alleati e concorrenti (da Leu fino a Renzi). Franceschini, ministro della Cultura, vorrebbe immobilizzare tutto attorno a sé, tempo e spazio, storia e paesaggio, maggioranza e opposizione, vuole pietrificare ogni cosa intorno a Giuseppe Conte (o chiunque altro, persino Roberto Gualtieri, basta che non si voti): durare, durare, durare. Cosa che lo sta, progressivamente, e con la morbidezza che gli è propria, allontanando dalle ambizioni di Zingaretti per sospingerlo invece ad annusare la coda proprio del correntone ex renziano che vuole Gori segretario. Sarà un caso, ma non lo è, che sulle nomine Rai (ancora pendenti) si è ricostituita un’antica coppia, quella tra Antonello Giacomelli e Luca Lotti, cioè l’ex sottosegretario del partito Rai amico di Franceschini e il capo degli ex renziani di Base riformista. La Rai, come sempre, spiega molte cose e talvolta le anticipa. Sicché l’asse tra Franceschini e Base riformista nella tv pubblica – dove si rema ordinatamente per portare, tra gli altri, Mario Orfeo al Tg3 – rivela una nuova maggioranza dentro al Pd, un nuovo mega correntone che scombina (o ricombina) gli equilibri che avevano portato all’elezione di Zingaretti.

 

Dunque da un lato i riformisti del Pd si riorganizzano intorno al profilo – molto renziano dei tempi d’oro – di un sindaco, mentre Franceschini pian piano e in silenzio si prepara a separare il suo destino personale da quello di Zingaretti. E anche la parte più a sinistra del Pd, compresi parecchi ministri, trova nell’attuale vicesegretario Andrea Orlando il suo portabandiera, il predestinato capace di risvegliare un antico richiamo della foresta, l’ultimo “figlio del partito”, dove per partito si intende il Pci di Giorgio Napolitano e di Emanuele Macaluso, niente meno.

 

Ovviamente in superficie non passa giorno in cui ciascuno non attesti lealtà al segretario. Ma la lealtà sull’orlo del baratro diventa una difficile ginnastica da praticare e una banalità da recitare. Troppe cose però sono ancora in bilico, troppe variabili restano aperte perché questo mosaico liquido possa ricomporsi ora in un disegno preciso, in azioni concrete. Bisogna aspettare le elezioni in Emilia-Romagna, e il governo potrebbe anche avvitarsi da un momento all’altro, imprevedibilmente, non per effetto di calcoli o di una volontà intelligente, ma così, quasi per caso, cancellando con un frego ogni strategia. Dunque tutti sono in movimento, ma fermi. Zingaretti potrebbe passare in un attimo dalla sonnolenta debolezza al vigore dei pieni poteri sulle candidature. Per cui: adelante, con juicio, verso il congresso Gori contro Orlando.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.