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I poco machiavellici due Matteo e il problema di “ingegnarsi di fuggire l'odio”

Guido Vitiello

Essere cinici, farsi “temere” e l’incapacità di leggere il Principe

Ha confessato, con un sinistro lampo di trionfo negli occhi, di aver fatto un’operazione di palazzo – “machiavellica, direi”; ma ha subito aggiunto, per disperdere il sentore di zolfo che accompagna ogni evocazione dell’Old Nick, perfino nel salotto così poco spiritico di Porta a Porta, che Machiavelli è un grande, che dovremmo tutti studiarlo, e che lui, avendo lavorato a Palazzo Vecchio, lo sa. Messa così, la raccomandazione di Renzi aveva un non so che di marketing del territorio – Machiavelli come bistecca o come prodotto di cuoieria –, che del resto si abbina bene al “nome agrituristico” (così, genialmente, Mattia Feltri) del partito nuovo, Italia Viva. Ma senza dimenticare il monito di Brancati – “Sul capezzale di ogni vinto si è trovato il ‘Principe’” – quello di Renzi resta un buon consiglio: studiamo Machiavelli. Ora – metto le mani avanti per non finire come un San Sebastiano trafitto dalle penne rosse e blu di Funiciello, di Sofri, del nostro caro fondatore – io sono un pessimo lettore del “Principe”. Scavalco regolarmente la parte sugli eserciti perché mi annoia – un po’ come quelli che leggono “Guerra e pace” saltando i capitoli sulla guerra – e arrivo difilato al pezzo che tutti ricordano, perché sul capezzale di ogni liceale si è trovato un Bignami. Alludo al capitolo dove Machiavelli cerca di stabilire se sia meglio, per il Principe, esser temuto o amato, concludendo che è molto più sicuro farsi temere, perché contare sull’amore è rischioso, ma che amato o meno il Principe saggio “debbe solamente ingegnarsi di fuggire l’odio”.

 

Ecco, ho pensato, in questo – nell’arte di non attirare l’odio – i nostri nuovi leader sono ben poco machiavellici. All’indomani del referendum costituzionale, il Corriere della Sera riportava uno sfogo di Renzi ai proverbiali “fedelissimi” (che nei retroscena, un genere letterario di chiara derivazione evangelica, corrispondono alla cerchia dei discepoli a cui Gesù svela il senso delle parabole): “Non credevo che potessero odiarmi così tanto”, diceva lo sconfitto. “Un odio distillato, purissimo”. Il risveglio del giorno dopo di Matteo Salvini, rigettato all’asciutto dal golfo mistico del Papeete, non dev’esser stato così diverso, anche se il capo della Lega si rotola voluttuosamente nell’odio come nel brago e recita mattina e sera la parte piagnucolosa del capro espiatorio. Qualcuno potrà dire che confidare nell’amore degli elettori o dei parlamentari o dei compagni di partito, che come tutti gli uomini sono ingrati, volubili e molte altre cose brutte che Machiavelli elenca, è un’ingenuità tipica di una generazione di leader immaturi e narcisisti patologici, ma io lascerei da canto la psicologia moraleggiante per azzardare una congettura su un terreno non so bene se antropologico o politico, fate voi.

 

Lunedì scorso, in una festa dell’estate romana, il testone di cartapesta di Salvini è stato usato come pignatta e preso a bastonate tra una folla di ragazzi euforici, rovesciamento macabro e carnevalesco dell’establishment balneare del Papeete. In quel piccolo rituale di linciaggio simbolico mi è parso di vedere il senso degli ultimi cinque anni o cinque lustri: una comunità politica in crisi ormai cronica di legittimazione che passa da un sacrificio umano all’altro per rifondarsi e riconsacrarsi, e che cronicamente non riesce nell’impresa; e così, frustrata, va avanti spaccando una pentolaccia dopo l’altra, alla cieca, in una coazione a ripetere di cui ha smarrito ogni significato: la distruzione è per molti la sola forma di partecipazione politica rimasta. In un mondo allegoricamente perfetto, dalla pignatta spaccata sarebbero dovute piovere le monetine del Raphael, perché il meccanismo infernale fu azionato nel 1992 – quando la nostra pars destruens non solo si scatenò, ma si premunì di sparger sale per impedire ogni futura pars construens – e da allora ha via via accelerato i registri, fino alle convulsioni degli ultimi anni.

 

L’arte della politica negli anni a venire si ridurrà forse a questo, all’“ingegnarsi di fuggire l’odio” per il lasso di tempo più lungo possibile, procrastinando l’immolazione finale. E i leader della nuova generazione, così prodighi di bacioni e di sorrisi eppure così imprudentemente sprezzanti nel momento del trionfo, farebbero bene a capire con che materia instabile e incandescente hanno a che fare. Pensino meno a farsi amare, e impieghino il meglio delle loro energie a non farsi odiare.