Festeggiare il falò delle cattive proposte
Finiscono al macero il salario minimo e una confusa riforma del Lavoro
L’eventuale fine anticipata della XVII legislatura non lascerebbe dietro di sé alcun rimpianto in materia di politiche sociali e del lavoro. Anzi, forse sarebbe un bene. Delle misure adottate e vigenti (reddito di cittadinanza e quota 100) sono noti gli effetti (fortunatamente) deludenti, tanto da produrre una quota significativa di quei risparmi che hanno consentito al governo di dare corso all’assestamento di bilancio e sventare così la procedura d’infrazione. Certo, con il blocco dell’attività amministrativa (salvo quella ordinaria) si complicherà ancora di più il progetto velleitario dei navigator in qualità di rabdomanti di nuovi posti di lavoro, mentre per quanto riguarda le prestazioni monetarie (analogo discorso vale per l’accesso anticipato alla pensione), a legislazione vigente, esse procedono in automatico grazie alla copertura finanziaria triennale.
Una segnalazione particolare può essere fatta in materia di pensioni. Le modifiche introdotte dal governo gialloverde (tanto l’accesso a quota 100 di durata triennale, quanto il blocco dell’adeguamento automatico all’attesa di vita sino al 2026) hanno carattere sperimentale e temporaneo; dopodiché ripartirebbero, in mancanza di altre disposizioni, le norme della riforma Fornero. Ma c’è tutto il tempo per decidere, magari per rivedere anche delle scelte deludenti e sbagliate.
La vittima più illustre della fine della legislatura sarebbe certamente il disegno di legge per l’introduzione di un salario minimo legale (individuato in 9 euro lordi all’ora). Anche se il ddl Catalfo conteneva una serie di norme importanti (forse di dubbia costituzionalità per quanto riguarda l’estensione erga omnes della contrattazione collettiva e le regole della rappresentanza) il dibattito si è concentrato sullo “smic all’italiana’’, mettendo in luce un sostanziale dissenso tra le due componenti della maggioranza. In generale, però, il provvedimento aveva incontrato la contrarietà del mondo dell’impresa (soprattutto da parte delle Pmi che si vedevano aumentare il costo del lavoro per legge) e le perplessità dei sindacati stessi che temevano una manomissione della contrattazione collettiva nazionale. La criticità del problema era stato sintetizzata dal prof. Pasquale Tridico, presidente dell’Inps e factotum del RdC: “I risultati dell’analisi – aveva scritto nel rapporto istituzionale dell’Istituto – evidenziano come, su un totale di 14,9 milioni di rapporti di lavoro, il 28,9 per cento (4,3 milioni di rapporti di lavoro) si collochi sotto la soglia minima di 9 euro lordi. L’importo complessivo delle retribuzioni lorde (comprensive della 13° mensilità aggiuntiva) sotto soglia è pari a 9,7 miliardi di euro. Per i soli dipendenti delle aziende private non agricole, l’incidenza dei rapporti di lavoro sotto soglia scende al 25,9, per retribuzioni complessive pari a 7,5 miliardi di euro. Inoltre – aveva concluso – l’incidenza dei salari al di sotto della soglia di 9 euro risulta essere decisamente più elevata per i giovani, per i lavoratori nel sud, per le donne, e per il settore manifatturiero, alberghiero, ristorazione e lavoratori domestici’’. Ma il solerte Tridico (l’immaginazione al potere!) aveva trovato, in un’ intervista all’Ansa, anche la soluzione. Con la riduzione di due punti del cuneo fiscale sarebbero restituiti alle aziende almeno 6 miliardi. Quindi, secondo Tridico, l’incremento retributivo derivante dall’introduzione del salario minimo sarebbe stato in larga misura compensato. Ma sarebbero rimasti da coprire 1,5 miliardi gravanti prevalentemente sulle imprese minori. Che fare allora? Seguendo la logica di Tridico sarebbe bastato tagliare di un altro mezzo punto il cuneo e tutto si sarebbe sistemato. Restavano, però, due questioni dimenticate: 1) alle aziende non sarebbe piaciuto fare “pari e patta’’; ovvero pagare minori contributi in cambio di maggiori retribuzioni. Ma il ragionamento di Tridico – se non abbiamo scambiato lucciole per lanterne – avrebbe portato a tale conseguenza, discriminando persino le imprese perché alcune avrebbero tratto beneficio dal taglio del cuneo, altre, le Pmi, no . 2) Alla fine, poi, chi altro avrebbe dovuto finanziare con risorse fiscali il taglio di qualche punto del cuneo se non il bilancio dello stato? In conclusione il salario minimo sarebbe stato messo, indirettamente, a carico dei contribuenti, a conferma della politica del “paga Pantalone’’ effettuata dal governo bicefalo.
Nell’ombra si stavano muovendo, poi, operazioni molto ampie, tanto ambigue da far temere il peggio. Senza fare troppo rumore il governo aveva presentato, il 13 giugno scorso in Senato, un disegno di legge delega che avrebbe consentito, se approvato, di riscrivere gran parte del diritto del lavoro (sarebbe la terza volta dal 2012, prima con la legge n. 92 del ministro Fornero, poi col Jobs Act, i pezzi forte del governo Renzi). Se poi si tiene conto che era incardinata in Commissione Lavoro al Senato un disegno di legge delega a firma del ministro Giulia Bongiorno che rovesciava come un guanto la disciplina del pubblico impiego (anche in questo caso dopo le riforme Brunetta, prima, Madia, poi) c’erano in vista parecchie modifiche, di cui, tuttavia, non era agevole interpretarne l’indirizzo. In sostanza, le deleghe erano tanto generiche da non lasciare intendere se fosse in programma una revisione significativa delle innovazioni introdotte nelle passate legislature oppure se il governo si accontentasse di “menare il can per l’aia”, tanto per darsi un ruolo. Il risultato sarebbe stato comunque garantito: la paralisi della Pa in attesa delle nuove regole. Ma la promessa di “ricchi premi e cotillons’’ era scolpita nel disegno di legge (AS 1338) recante il titolo “delega al governo per la semplificazione e la codificazione in materia di lavoro’’ e presentato dal Gotha bipartisan – cosa rara – dell’esecutivo (il presidente Giuseppe Conte e i ministri Bongiorno, Di Maio e Tria). Il fine indicato era quello – quanto meno sarchiaponesco – “di creare un sistema organico di disposizioni in materia di lavoro per rendere più chiari i princìpi regolatori delle disposizioni già vigenti e costruire un complesso armonico di previsioni di semplice applicazione’’. Uno dei principi generali prevedeva che il governo procedesse al coordinamento e all’armonizzazione sotto il profilo formale e sostanziale delle disposizioni legislative vigenti, apportando a tal fine le opportune modifiche volte a garantire o migliorare la coerenza giuridica, logica e sistematica (sic!) della normativa, intervenendo mediante novellazione e revisione dei codici o dei testi unici di settore già esistenti.
Un altro principio era rivolto all’adeguamento, aggiornamento e alla semplificazione del linguaggio normativo. Navighiamo ancora tra le nebbie delle paludi. Soprattutto siamo curiosi di capire che cosa si intendesse per semplificazione del linguaggio normativo. Che ci siano dei problemi di chiarezza e trasparenza è evidente: è ormai usuale scrivere norme che ne richiamano altre con la sola citazione della fonte legislativa, del numero dell’articolo e dei commi. Ma le norme sono fatte di parole; e una parola esprime un concetto specifico diverso da quello sotteso a un’altra parola. Un concetto semplificato può diventare un concetto diverso. Può succedere allora che con la scusa della semplificazione si dia alla norma una portata applicativa differente (non si dimentichi mai il broccardo secondo il quale che “tre parole del legislatore gettano al macero intere biblioteche’’).
Per concludere, finiranno al macero tanti progetti di legge rivolti a risolvere la questione della rappresentanza sindacale (che, ad avviso di chi scrive, è irrisolvibile per motivi politici e pratici). Ma anche un orologio rotto segna l’ora giusta almeno due volte al giorno. Così sarà travolto anche un ddl della Lega che cercava di attutire i danni provocati dal decreto dignità (altro demerito dell’esecutivo), consentendo alla contrattazione collettiva di ampliare l’ambito delle causali idonee al rinnovo, dopo i primi 12 mesi, di un contratto a termine.
Equilibri istituzionali