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Reddito di cittadinanza più salario minimo: lavoro nero e disoccupazione

Luciano Capone

La combinazione tra i due provvedimenti rischia di essere letale per l’economia

Roma. Mentre la macchina amministrativa è impegnata con l’avvio del reddito di cittadinanza, la politica guarda avanti e si prepara al salario minimo. E’ il prossimo obiettivo del M5s e il terreno sul quale è possibile avviare un dialogo con il Pd. Luigi Di Maio ha già lanciato un messaggio a Nicola Zingaretti: “Mi auguro di vedere sul tema un’ampia convergenza. Chi vuole fare gli interessi dei lavoratori non può tirarsi indietro”. “I processi politici non si fanno con le furbizie”, ha risposto il nuovo segretario del Pd. Al di là delle schermaglie, entrambi i partiti hanno presentato una proposta di legge per un salario minimo da 9 euro l’ora (lordi per il M5s e netti per il Pd).

 

E’ vero che l’Italia è uno dei pochi paesi a non avere un salario minimo orario, che dovrebbe coprire tutti lavoratori che sono fuori dalla contrattazione collettiva, ma le proposte al momento in campo rischiano solo di aggravare le storture economiche del paese. Il primo problema è il livello a cui fissare il salario minimo, soprattutto in un paese, come l’Italia, in cui ci sono grandi differenze territoriali (a Milano ci sono retribuzioni diverse da Enna). Pertanto se il salario minimo viene fissato a un livello troppo basso diventa inutile, mentre se viene fissato a un livello troppo alto si rivela dannoso: perché spingerebbe le imprese esistenti a preferire il lavoro nero o ad andare via, tenendo lontane dai territori più poveri (e meno produttivi) quelle che potrebbero investire. Un parametro usato per fissare il salario minimo è il rapporto con il salario mediano, con i due indici che non devono essere troppo vicini tra di loro: generalmente il salario minimo dovrebbe essere tra il 40 e il 60 per cento del salario mediano. Nell’area Ocse, tra i paesi più simili all’Italia, i salari minimi più elevati arrivano al 60 per cento del salario mediano. In Italia col salario orario da 9 euro proposto dal M5s e dal Pd (in questo caso sarebbe ancora più elevato, visto che i 9 euro sono netti), si arriverebbe all’80 per cento del salario mediano. Un livello che spiazzerebbe gran parte delle imprese private, soprattutto al sud, e delegittimerebbe anche il ruolo dei sindacati.

 

E arriviamo qui al secondo problema. Se si guardano le medie e i valori per settore dei salari in Italia (come ha fatto l’economista Andrea Garnero nel paper “The dog that barks doesn’t bite”) si noterà che un salario minimo da 9 euro l’ora sarebbe superiore a quasi tutti i minimi tabellari frutto della contrattazione collettiva. Vorrebbe dire che i sindacati verrebbero completamente sviliti perché i contratti da loro sottoscritti sarebbero inutili. L’esatto contrario della preoccupazione che finora i sindacati hanno avuto rispetto al salario minimo, ovvero che un livello troppo basso avrebbe depotenziato la contrattazione nazionale favorendone il decentramento a livello locale o aziendale.

 

La combinazione tra reddito di cittadinanza e salario minimo, entrambi alle quote più elevate in Europa, sarebbe letale per l’economia e la domanda di lavoro: prima si separa il reddito dal lavoro e poi il salario dalla produttività. Alla base c’è l’idea bislacca secondo cui lo stato fissa un salario per legge e poi le imprese si adeguano, investendo il necessario per raggiungere la produttività necessaria a pagarlo. Eppure ci sarebbe un modo per ricondurre tutto in una dimensione reale e sensata. Gli economisti Tito Boeri, Andrea Ichino, Enrico Moretti e Johanna Posch hanno appena pubblicato uno studio (“Wage equalization and regional misallocation: evidence from italian and german provinces”) sui differenziali retributivi tra le regioni italiane, causato in buona parte dalle rigidità della contrattazione nazionale che crea e alimenta squilibri territoriali (salari reali più bassi al nord e disoccupazione più elevata al sud). Se in Italia venisse introdotto lo stesso sistema di contrattazione decentrata adottato dalla Germania dopo la riunificazione del 1990, che lega la dinamica degli stipendi alla produttività, si farebbe aumentare l’occupazione al sud e ridurre il differenziale con le regioni del nord, con un beneficio per tutto il paese: nel complesso “l’occupazione aumenterebbe dell’11,04 per cento e i salari del 7,45 per cento”. C’è qualcuno in Italia che pensa di proporre e spiegare riforme del genere?

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali