Nicola Zingaretti accanto a Luigi Di Maio (Foto LaPresse)

Il piano economico della sinistra: fare in Europa le stesse cose che Di Maio fa in Italia

David Allegranti e Carlo Stagnaro
">Pd-Cinque stelle sembra essere già cominciato. Non in Parlamento, dove nel Pd c’è chi auspica voti condivisi in aula su temi specifici, ma a distanza nella campagna elettorale per le europee del prossimo 26 maggio. I due partiti sembrano aver scoperto un comune terreno di confronto, almeno a guardare i programmi elettorali, che presentano impressionanti somiglianze. Il risultato finale, in questa corrispondenza d’amorosi sensi, è che il Pd vuol fare in Europa le stesse cose che il Movimento 5 stelle vorrebbe realizzare in Italia, e farle pagare dagli altri Stati membri.

 

  

Lo strumento con cui il Pd vorrebbe cambiare l’Unione europea è, infatti, la spesa pubblica: per finanziare “un piano straordinario di investimenti per opere pubbliche, lavoro e sostenibilità” (punto primo delle “10 idee per la nostra Europa”), per pagare una “indennità di disoccupazione europea” (punto secondo), per lanciare un “piano europeo per il diritto allo studio” (punto otto) e per scatenare la “lotta alla povertà infantile” (punto nove). Dove non arriva la spesa, si spinge la regolamentazione, col “salario minimo europeo” (punto sei), per “contrastare la differenza salariale e sociale tramite un aumento degli stipendi”. Per fare tutto questo, ci sono le tasse degli altri: “proponiamo l’introduzione di un’aliquota minima del 18 per cento per le imprese” (punto tre).

 

  

Il disegno di politica economica è, a suo modo, coerente: una specie di corbynismo su scala continentale che immagina, da un lato, di rafforzare l’interventismo delle istituzioni europee nell’economia e, dall’altro, di farlo attraverso un bilancio europeo molto più generoso di quello attuale. Da finanziare come? In parte obbligando gli Stati membri che hanno bassi livelli di spesa e quindi di prelievo (e che generalmente hanno anche i conti in ordine) ad aumentare le tasse sui propri cittadini e imprese, dall’altro per mezzo dell’emissione di eurobond.

 

Da che mondo è mondo, le promesse elettorali vanno prese cum grano salis, quindi sarebbe ingeneroso recepirle alla lettera. Tuttavia, ci sono almeno tre aspetti pittoreschi da sottolineare. Il primo riguarda il merito delle proposte: secondo il Pd, la Commissione Ue dovrebbe svolgere molte delle funzioni oggi esercitate dagli Stati membri (non è chiaro se sostituendoli o affiancandoli): dovrebbe introdurre il reddito di cittadinanza europeo per i disoccupati, stabilire i salari minimi per gli occupati, prelevare masse enormi di risorse finanziarie e investirli in “capitale umano, ricerca, infrastrutture materiali, immateriali e sociali, energie rinnovabili welfare”. Il tutto al modico costo dell’1,3 per cento del pil europeo (oggi è circa l’1 per cento).

  

 

Dovrebbe azzerare le emissioni entro il 2050, come chiede Greta Thunberg. Dovrebbe spendere, si legge nel programma esteso, il 5 per cento del pil per la ricerca (anche se nelle “10 idee” la cifra misteriosamente cala al 3 per cento: fanno quasi 300 miliardi di euro di differenza, che faccio, lascio?). Dovrebbe stanziare 5 miliardi di euro “a disposizione delle aree urbane e dei piccoli comuni”. Dovrebbe investire sull’agricoltura europea (ma guai agli Ogm). Dovrebbe dedicare alla cooperazione allo sviluppo lo 0,7 per cento del pil. Dovrebbe spendere un euro in cultura per ogni euro speso in sicurezza, vecchio pallino di Matteo Renzi quando era segretario del Pd. Dovrebbe – tenetevi forte – “proteggere dall’aggressività della globalizzazione”: a tal fine “rafforzare la dimensione sociale e ambientale degli accordi commerciali internazionali, promuovere l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese e potenziare strumenti quali il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione”. A far le somme, c’è il rischio che tra le spese esistenti (nazionali ed europee) e quelle proposte si superi di slancio il 100 per cento del Pil, nel qual caso non rimarrebbe neppure lo spazio fiscale per la immancabile bici con cambio Shimano.

 

Arriviamo così al secondo punto pittoresco: dove trovare le risorse. In parte, lo abbiamo ricordato, obbligando gli stati con basse imposte ad alzare le tasse. Secondo il Pd, in tutta Europa dovrebbe esserci una “aliquota minima effettiva del 18 per cento sulle imprese”, “a partire da quelle dell’economia digitale” e specialmente le multinazionali, i cui profitti andrebbero “tassati dove effettivamente realizzati”. Partiamo dall’inizio. Attualmente i paesi con aliquote dell’imposta sul reddito d’impresa inferiori al 18 per cento sono: Romania, Lituania, Cipro, Irlanda, Bulgaria, Ungheria. Un gruppo di nazioni che congiuntamente non arrivano al 5 per cento del pil europeo, e tutte con un pil pro capite ben sotto la media (tranne l’Irlanda, che sta sopra, mentre la Bulgaria ha addirittura il reddito pro capite più basso d’Europa). Buona fortuna.

 

Oltre a tassare i paesi poveri per finanziare i sussidi di disoccupazione in quelli ricchi, il Pd conta su “eurobond emessi dalla Bei e acquistati dalla Bce e dagli stati membri attraverso lo scorporo dal calcolo del deficit degli investimenti”. In pratica, succederebbero due cose: parte del debito emesso dalla Bei sarebbe monetizzato dalla Bce; la parte rimanente sarebbe acquistata direttamente dagli Stati membri (non si capisce bene con quali risorse). In ogni caso, il Pd vuole creare due flussi finanziari interni all’Ue: dai poveri ai ricchi e da chi ha i conti in ordine a chi ha il bilancio in disavanzo. Ok. Infine, il Pd promette di aprire l’Ue come una scatoletta di tonno (ops): votare Pd serve a “lasciarsi alle spalle i modelli neoliberali e conservatori del passato”. Di solito a sinistra in assenza di argomenti si dice che è tutta colpa del neoliberismo, ma evidentemente sarebbe stata un’accusa troppo circoscritta alla sfera economica, meglio allargarsi anche gli altri ambiti della vita. Di Maio e Salvini non avrebbero saputo dirlo meglio, ma – a differenza del M5s o della Lega – il Pd sembra rimuovere una scomoda verità.

 

Rigettare il passato recente non è solo un’operazione italiana di rottamazione del renzismo, ha anche una valenza europea. Ebbene: da quando l’Unione europea esiste nella sua attuale forma (1992), gli europarlamentari del Pse (gruppo a cui appartiene il Pd) sono sempre stati parte della maggioranza. Insomma, invece di rivendicare i grandi benefici dell’unificazione europea, di cui può legittimamente vantare parte del merito, il Pd si presenta alle europee fingendosi l’opposizione di se stesso. Insomma, finora si è detto e scritto che il Pd di Nicola Zingaretti ha un atteggiamento attendista, che è in attesa del risultato di fine maggio e che fino a quel momento può al massimo attuare una strategia di contenimento (del danno). Questo può essere vero per il discorso pubblico, come dimostra la difficoltà di inserirsi nel dibattito quotidiano e cambiare l’agenda pubblica. In realtà però nella costruzione delle sue policies, il Pd sta prendendo una strada ben definita e precisa, al di là delle indistinte liste aperte e inclusive con le candidature “da Tsipras a Macron”, che sembrano essere più una scelta di comunicazione che di sostanza politica. La sostanza, se vogliamo cercarla, è nei tic pavloviani contro il neoliberalismo: né Tsipras né Macron, tendenza Varoufakis.

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