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I fannulloni sono ancora lì

Renato Brunetta

Dieci anni fa la riforma Brunetta della Pubblica amministrazione. Una legge osteggiata, mai pienamente attuata. Il promotore la difende con la stessa “ingenua baldanza” di allora

Questo intervento non ha alcuno scopo celebrativo. Significa soprattutto mettere a disposizione di questo governo, del Parlamento e dell’opinione pubblica il frutto di un lavoro il cui valore e la cui freschezza permangono intatti. Non si pretende la riscossione di alcuna royalty neppure morale. La precisione, fin quasi alla puntigliosità, non va ascritta tanto al carattere combattivo dello scrivente, ma al desiderio di non sprecare un tesoro. Mi sono domandato perché la riforma Brunetta-Berlusconi, e si scusi la ripetizione del mio nome, sia stata sepolta sin dal suo concepimento da una profluvie di pregiudizi fino all’insulto, e poi condannata ad una sorta di “damnatio memoriae”. La riflessione su questo andrebbe allargata dal “caso Brunetta”, a una generale attitudine della sinistra italiana a deturpare come inaccettabile moralmente prima ancora che culturalmente, qualunque proposta riformatrice che non sia generata dal proprio club.

 

I quattro gatti che protestavano furono eretti a eroi di civismo a uso di attacchi sgangherati da parte della Cgil, dell’Espresso, di Repubblica

Monti e Passera hanno abbandonato tutti i progetti già avviati. Renzi e Madia volevano portare tutto a Palazzo Chigi

Perché in Italia le riforme non si fanno e, quando si fanno, si disconoscono? Mi esprimo con una formula: la sindrome “razzista” della nostra sinistra, che la rende incapace di ritenere “umano” il riformismo degli altri. Non appartiene al dicibile politico un progetto che non nasca dai propri lombi peraltro da decenni sterili.

 

Nel caso della riforma della Pubblica amministrazione il sottoscritto non ha avuto contro “i fannulloni”. I quattro gatti che protestavano sono stati eretti a eroi di civismo a uso di attacchi sgangherati e a livello di stalker da parte della Cgil che mi indirizzò contro 12 scioperi generali, dell’Espresso che mi dedicò quattro copertine “infamanti”, di Repubblica che con un suo giornalista mi dedicò una specie di rubrica che sfociò in un libro banal-demenziale. Non si colpì, non avendo argomenti, il merito della riforma, ma “razzisticamente” la persona di chi l’aveva concepita. La cosiddetta satira è stata costruita per creare un pregiudizio propagandistico, onde annullare qualsiasi prodotto intellettuale e politico che da me provenisse come indegno, irricevibile per decreto, data la macchia originaria.

 

Non ne faccio un caso personale, ci ho fatto il callo, anche se non dimentico certi affronti persino involontari, quasi riflesso automatico sconcio della sinistra benpensante al solo dire il mio nome. Mi interessa piuttosto rilevare la persistenza negli strati alti della borghesia accademica, burocratica, politica di un filtro diabolico che esclude la considerazione del merito. Sono figli dell’intellettualità che consentì alla cultura antisemita negli anni finali del fascismo e poi traslocò a sinistra, trasformando il vaglio razziale in quello classista e ideologico dell’origine sociale e dell’appartenenza a un filone intellettuale anticomunista. Il nostro establishment è ancora cosiffatto. Io mi vanto di conservare l’ingenua baldanza che mi indusse, allora, avendo le carte in regola dal punto di vista degli studi e della mia storia di riformismo socialista, a presentare quel piano per il bene della povera gente e della gente comune. Con riflessi di pace sociale e serenità istituzionale. Ove si fosse applicata la “riforma Brunetta”, la frattura tra lo stato, di cui il comune cittadino fa esperienza nella vita quotidiana, e la società non ci avrebbe portato a questo punto tragico della nostra storia. I mostri che ci governano, speriamo ancora per poco, sono figli di quella frattura e di quella persistente arroganza.

 

Exit, Voice, Loyalty

Il 5 marzo 2009 la Gazzetta Ufficiale pubblica la Legge 15/2009 con una delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e all’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni. La legge stabilisce gli indirizzi fondamentali ai quali il governo dovrà attenersi nella preparazione dei decreti legislativi di riforma dell’azione amministrativa e dell’architettura complessiva delle burocrazie pubbliche. Partiva così un lungo processo, passato alla ribalta pubblica come riforma Brunetta, durato poco più di due anni e mezzo, con il quale si porrà la base di un cambiamento radicale della macchina pubblica. A dieci anni di distanza gli effetti dell’impegno e della passione di quanti lavorarono a quel progetto sono ancora pienamente visibili, nonostante i tanti ostacoli e le troppe marce indietro che i governi successivi sparsero a piene mani.

 

Il nostro lavoro ha preso avvio da un’idea semplice, che abbiamo voluto come guida della riforma di tutto il settore pubblico: immaginare e realizzare un percorso di ri-equilibrio tra l’azione delle amministrazioni pubbliche, la continua ricerca di efficienza e d’innovazione delle imprese e la domanda di semplicità e di speditezza dei cittadini nelle relazioni con gli uffici pubblici.

 

Le parole chiave del nostro lavoro le abbiamo trovate nello schema metodologico proposto dal prof. Hirschman: Exit, Voice and Loyalty. In altri termini: favorire la scelta tra una pluralità di fornitori di servizi d’interesse collettivo, anche uscendo dai confini del perimetro pubblico; riconoscere la critica costruttiva e dare a tutti l’opportunità e il diritto di veder ascoltata la propria voce perché essenziale alla revisione dei processi e dell’organizzazione pubblica; accrescere progressivamente la credibilità dei servizi pubblici e della burocrazia dimostrando, nei fatti, affidabilità e lealtà verso cittadini e imprese.

 

Uno schema di lavoro che conduce a un cambiamento concreto solo se tutti i protagonisti trovano una propria occasione di vantaggio: se i cittadini vedono migliorare i servizi; se le imprese operano in mercati aperti e favorevoli all’innovazione; se i dipendenti pubblici vedono riconosciuti meriti e sforzi di miglioramento e se lo stato spende di meno e meglio.

 

Il mio lavoro come ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione nel governo Berlusconi è partito da un messaggio e da poche parole chiave. A queste parole sono seguite poi centinaia d’iniziative nelle grandi e nelle piccole amministrazioni; la mobilitazione di persone e di soluzioni tecnologiche; il coinvolgimento di vasti settori del tessuto produttivo; la riforma del pubblico impiego e dei meccanismi di valutazione delle prestazioni dei dipendenti pubblici; lo slancio a mettere tutti in condizione di far contare la propria voce.

 

A qualcuno è sembrato quasi troppo e in tanti ci hanno criticato. Brunetta è dappertutto e si occupa di tutto. Brunetta costringe i suoi collaboratori a marce forzate nelle giungle ministeriali e, ogni mattina, chiede loro conto delle cose fatte e di quelle da fare. Brunetta parla tanto ma combina poco.

 

In realtà il nostro lavoro si basava su un metodo semplice: prima le norme necessarie ad attivare il cambiamento; poi la revisione degli snodi interni alla pubblica amministrazione e infine l’avvio di tanti progetti, piccoli e grandi, capaci di cambiare dall’interno il modo di lavorare delle amministrazioni e dei dipendenti pubblici.

 

Sul primo fronte, le nuove leggi, basterebbe ricordare il d.lgs 150/2009 con l’introduzione dell’obbligo di misurazione e valutazione della performance, l’accessibilità totale delle informazioni sul funzionamento della macchina amministrativa (curricula, incarichi, retribuzioni, consulenze, costi) attraverso i siti internet istituzionali, l’introduzione della programmazione degli obiettivi e dell’individuazione delle risorse necessarie e dei meccanismi di valutazione del merito.

 

O ancora l’introduzione, con il decreto legislativo 198/09, della cosiddetta class action verso la pubblica amministrazione ossia del riconoscimento ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei di agire in giudizio nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, i quali nello svolgimento delle proprie attività, abbiano leso i loro diritti.

 

Anche la riformulazione integrale del Codice dell’amministrazione digitale (con il decreto legislativo n. 235/2010) per renderlo effettivamente vincolante per le amministrazioni locali e centrali e per gli esercenti dei pubblici servizi e per favorire la diffusione delle nuove soluzioni tecnologiche (dalle firme digitali all’accesso online alla documentazione amministrativa) è esempio del lavoro di quel periodo.

 

Si è trattato di una riforma che in parte è tuttora vigente perché adeguata a disciplinare lo sviluppo tecnologico dell’organizzazione pubblica e dei rapporti tra cittadini e pubbliche amministrazioni, in parte ha posto dei principi che hanno dato frutti e hanno garantito positivi sviluppi alle idee originali introdotte nell’ordinamento e per altri aspetti, per il suo carattere assolutamente impegnativo e innovativo, reclama ancora una integrale attuazione, attuazione che è mancata per il difetto di successivo coordinamento, per il mancato investimento nell’informatizzazione degli Uffici, per il venir meno di un coordinamento a livello nazionale. I concetti introdotti con quella riforma sono ancora al centro dello sviluppo digitale della pubblica amministrazione e rappresentano una sintesi del tutto avanzata dei concetti di trasparenza, di accessibilità dei dati delle pubbliche amministrazioni, di accesso telematico ai servi pubblici.

 

Un nuovo sistema di formazione

Sul fronte del ripensamento degli snodi della macchina pubblica in quei due anni o poco più abbiamo cambiato il sistema di accesso e di formazione dei dipendenti pubblici con la riforma della Scuola superiore della Pubblica amministrazione; messo ordine nelle funzioni e nelle responsabilità della digitalizzazione con la nascita di DigitPa; istituito la Commissione per la valutazione e la trasparenza oggi Anac; rimodulato competenze e attribuzioni dell’Agenzia per la contrattazione pubblica.

 

Sul pubblico impiego, la privatizzazione del rapporto di lavoro prevista dalla legislazione della fine anni Novanta era stata un mezzo fallimento. Le logiche contrattuali spingevano verso le richieste sindacali del “più soldi a tutti”, il ruolo del dirigente non era uscito dalla gabbia di competente in materie giuridiche, ma poco incline alla gestione di risorse umane e finanziarie.

 

Per questi motivi il decreto legislativo n. 150 del 2009, sulla riforma della Pubblica amministrazione, contemplò misure volte a sottolineare la responsabilità e le autonomie della classe dirigenziale, attribuendo alla stessa forti poteri decisionali e gestionali, rafforzando anche il relativo potere disciplinare e prevedendo, altresì, misure sanzionatorie in caso di mancato o non corretto esercizio dei poteri o delle prerogative spettanti.

 

La vera novità insita nella riforma del 2009, è stata quella definire un apparato di misure, coerentemente articolato e disciplinato, che costringeva gli attori a interpretare correttamente il loro ruolo, neutralizzando eventuali strategie di ostruzionismo, incidendo in maniera significativa sul trattamento retributivo dei dipendenti pubblici che ritardavano, ostacolavano o impedivano il processo di rinnovamento, implementando un sistema di relazioni tra soggetti, interni ed esterni all’amministrazione, che partecipano alla valutazione e che esprimono un giudizio sulla validità dei criteri seguiti per la misurazione delle performance e conseguentemente della qualità dei servizi pubblici erogati la collettività.

 

Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, un importante tassello della riforma fu quella della semplificazione dei comparti di contrattazione, che furono portati a quattro, sfoltendo la giungla dei numerosi contratti che regolavano i rapporti di lavoro nei vari settori.

 

Inoltre furono adottate misure atte a combattere l’assenteismo e che portarono a risultati notevoli nella riduzione dei giorni di assenza. Il monitoraggio giornaliero delle assenze in molti settori della Pubblica amministrazione consentiva di avere sotto controllo il fenomeno e di poter agire con misure specifiche il fenomeno. Le resistenze all’interno della Pubblica amministrazione erano all’epoca e sono rimaste successivamente, molto forti; più comodo quindi, annacquare, smussare, deviare.

 

Non si è assistito – da parte dei governi successivi – alla demolizione dei principi cardine: quelli sono rimasti indiscutibili, almeno in via di principio, si è assistito tuttavia alla sistematica rivisitazione degli snodi cruciali della riforma per renderla innocua, inoffensiva, per svuotarne la carica eversiva.

 

Maggiore resistenza alle successive manomissioni hanno mostrato quelle parti della riforma – come quella relativa alla contrattazione collettiva integrativa e al superamento dei limiti per la retribuzione accessoria (art. 40 d.lgs. 165 del 2001 come modificato dall’art. 54 del d.lgs. 150 del 2009) – che non necessitavano di uno sforzo attuativo, di una faticosa attività di amministrazione del personale e dell’organizzazione pubblica e che, tuttavia, garantivano risparmi di spesa in ragione di limiti posti alla contrattazione integrativa.

 

Alcuni principi introdotti dalla Riforma hanno, invece, trovato maggiore fortuna: ad esempio la mobilità del personale delle pubbliche amministrazioni, in un decennio caratterizzato dal blocco delle assunzioni e dalla necessità di rivedere le piante organiche in ragione di nuove priorità di intervento pubblico, ha rappresentato una linea di intervento che non è stata abbandonata ma è stata perseguita.

 

La riforma della Scuola superiore della Pubblica amministrazione (varata con il d.lgs.178 del 2009) fu pensata e attuata in quel periodo per rilanciare la Scuola e assegnarle una funzione propulsiva nella attuazione della riforma della Pubblica amministrazione e nella creazione di eccellenze. Questo elemento di riforma non è andato perduto nell’azione dei governi successivi e – di seguito – cinque scuole di settore operanti presso diversi ministeri sono state soppresse e con attrazione delle loro funzioni alla scuola poi nominata Scuola nazionale dell’Amministrazione.

 

La riforma del Formez aveva consentito l’ottimizzazione dell’impiego delle risorse dell’ente, delineandolo come agile strumento di azione dell’amministrazione e strumento di raccordo tra amministrazione centrale ed enti territoriali. I successivi interventi, con il “nobile intento” di contenimento della spesa pubblica, hanno commissariato l’ente, i cui bilanci erano in attivo e creavano anche profitto, spogliandolo dei suoi compiti e riducendolo a un “baraccone” inutile e comunque dispendioso, rifugio delle retrovie del sottobosco politico.

 

Tutti i progetti avviati

L’elenco dei moltissimi progetti avviati è troppo lungo. Tra questi valgano a puro titolo di esempio: la posta elettronica certificata, che ha cambiato l’amministrazione pubblica; la certificazione di malattia online e la prescrizione medica elettronica; il valore legale della pubblicazione degli avvisi sui siti istituzionali; la creazione della piattaforma per i pagamenti elettronici. Ma anche l’avvio operativo della fatturazione elettronica verso la Pubblica amministrazione; la didattica digitale nelle scuole; l’uso della firma digitale e della firma elettronica avanzata nei rapporti con le amministrazioni e tra privati. E ancora l’identità digitale dei cittadini e delle imprese; la creazione delle banche dati d’interesse nazionale; la continuità operativa dei sistemi informativi pubblici; il contrasto al cybercrime e la tutela delle infrastrutture critiche. Open data e open government sono espressioni nate nel primo documento sull’Agenda digitale italiana del settembre 2009.

 

Nei cinque governi successivi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte) a nessuno dei miei successori al dicastero della Pubblica amministrazione è stata attribuita una precisa responsabilità di sistematizzazione delle politiche pubbliche a favore della modernizzazione della macchina amministrativa.

 

A partire dal governo Monti con il quale si azzera tutto il lavoro fatto, si sopprimono le strutture esistenti frammentandone le responsabilità, si istituisce l’Agenzia per l’Italia digitale ponendola sotto la vigilanza del presidente del Consiglio dei ministri e di quattro ministri (Sviluppo economico, Istruzione e ricerca, Economia e finanze e Pubblica amministrazione e semplificazione) in una confusione strategica e operativa senza pari nella storia della amministrazione italiana.

 

Inizia allora la storia che ha portato all’attuale groviglio di poteri, di raccordi legislativi, di visioni, di progetti e iniziative, di responsabilità amministrative le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Con una forte e precisa responsabilità politica dei vari presidenti del Consiglio e dei ministri dell’Amministrazione pubblica che negli ultimi 6-7 anni hanno abbandonato ogni speranza di riforma del settore pubblico.

 

Mario Monti e Corrado Passera hanno la responsabilità di aver abbandonato tutti i progetti già avviati e di aver favorito iniziative che sono rimaste sogni nel cassetto, spesso pagati a peso d’oro (tra questi il più fumoso di tutti resta l’accorpamento dei data center pubblici).

 

Matteo Renzi e a Marianna Madia hanno immaginato di portare tutto a Palazzo Chigi, in nome di una centralità del potere e di una supponenza delle strutture che negava qualsiasi forma di libertà di scelta dei cittadini, che rallentava ogni forma di decentramento delle responsabilità verso i dirigenti o le strutture periferiche e di fatto minava alla base quel rapporto di credibilità e di fiducia tra cittadini e dipendenti pubblici.

 

Imprese e cittadini senza voce

Imprese e cittadini restavano così senza voce e senza via d’uscita e la macchina pubblica senza alcun orgoglio di dimostrare merito e qualità. Generando una confusione senza pari all’interno della Pubblica amministrazione.

 

Riequilibrare l’azione della Pa, la ricerca di efficienza delle imprese e la domanda di semplicità dei cittadini nelle relazioni con gli uffici pubblici

La novità: misure che incidevano sul trattamento retributivo dei dipendenti pubblici che ostacolavano il processo di rinnovamento

E a questa confusione, non poteva essere diversamente, la macchina pubblica ha reagito chiudendo ogni processo innovativo e affidandosi ai soli fornitori consolidati, dei quali è diventata prigioniera. Con il solo risultato di aver creato tutte le condizioni per un ritardo pesante del nostro paese in materia di innovazione e di digitalizzazione.

 

Come è confermato da tutti gli indicatori e i ranking internazionali. Tra questi l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società messo a punto dall’Unione europea certifica come l’Italia sia agli ultimi posti.

 

In particolare la Relazione nazionale sull’Italia per il 2018 del Desi mette in evidenza come “La performance peggiore è ascrivibile alla categoria degli utenti eGovernment, che vede l’Italia all’ultimo posto in classifica fra i paesi Ue: si tratta di un risultato addirittura peggiore di quello registrato per l’uso di altri servizi online, che potrebbe essere il sintomo di alcuni problemi per quanto riguarda l’utilizzabilità dei servizi pubblici”.

 

Un ritardo che certo viene da lontano ma che poteva essere agevolmente recuperato se, per decisione politica, non si fosse scelto di abbandonare ogni progetto di miglioramento possibile grazie alle tecnologie digitali. E un ritardo che dipende in misura determinante dalla mancanza di una visione sistemica e strategica della via da seguire.

 

I miei collaboratori ed io abbiamo ripreso in mano per migliorare, rendere efficiente, attuare, completare o rivedere il lavoro di chi ci ha preceduto. I governi successivi avrebbero dovuto proseguire e migliorare quanto in poco più di due anni noi abbiamo fatto.

 

Oggi a mio avviso serve ripartire da quel lavoro, serve il coraggio di ridare senso di marcia e fiducia alle pubbliche amministrazioni, serve uno sforzo, di tutti e di sistema, per provare a riprendere in mano il tema della riforma della Pubblica amministrazione rileggendo le esperienze del passato, guardando al futuro e alle nuove tecnologie, valorizzando quanto di positivo è in campo, interrompendo quanto invece assorbe risorse senza portare a risultati.

P. S. Dedico questa mia pagina al Grand Banal Francesco Merlo, che dalle pagine di Repubblica, e non solo (si veda il suo volumetto “Il Fantuttone”, Aliberti, 2011, a me dedicato), interpretando genialmente la banalità di sinistra, mi ha spronato e continua a spronarmi a stare da una parte sola: dalla parte dei più deboli.