Roberto Gualtieri con Romano Prodi. Foto Imagoeconomica

La riserva dell'europeismo

Marianna Rizzini

Chi è Roberto Gualtieri, europarlamentare Pd e uomo chiave dell’Italia a Bruxelles in tempi sovranisti

“I read the news today oh boy / About a lucky man who made the grade / And though the news was rather sad / Well I just had to laugh”

(“A day in the life”, The Beatles, 1967)


    

Dì qualcosa di non sovranista, urlerebbe oggi (forse) Nanni Moretti a un dirigente della sinistra. Ma – fortuna per lui – il qualcuno che dice qualcosa di non sovranista c’è già, ed è ben piantato al centro dell’Europa, anche se è difficile scorgerlo a occhio nudo. L’uomo invisibile, infatti, è diventato improvvisamente visibile negli ultimi mesi, ma soltanto presso le preoccupate casematte dei partiti d’opposizione al governo gialloverde. Quando cioè ci si è rallegrati, nell’imminenza delle Europee 2019, e visto lo strabordare delle personalità populista italiane e straniere, di non dover ripartire per così dire dagli abissi (post 4 marzo 2018), ma di avere già in azione da anni, tra Bruxelles e Strasburgo, una sorta di riserva della Repubblica europeista che risponde al nome di Roberto Gualtieri: già docente di Storia contemporanea alla Sapienza, già vicedirettore della Fondazione Istituto Gramsci, già cofondatore del Pd con passato remoto nell’ex Pci-Pds-Ds (lato Massimo D’Alema), passato recente nel renzismo pragmatico (modello ex-post-neo Giovani Turchi) e presente nell’area super partes che dialoga con ogni concorrente alle primarie pd, visto il ruolo di eurodeputato al secondo mandato e presidente della Commissione per i problemi economici e monetari al Parlamento europeo.

     


Presidente della Commissione per i problemi economici del Parlamento europeo, è l’uomo chiave per l’Italia in tema di flessibilità


 

Gualtieri è insomma l’uomo che, per l’Italia, ha discusso con francesi e tedeschi attorno al tema della flessibilità e delle banche e che, come membro del Brexit Steering Group in rappresentanza del gruppo dei Socialisti e Democratici, ha seguito i negoziati Brexit per conto del Parlamento europeo, sotto la coordinazione di Guy Verhofstadt, con cui ha partecipato agli incontri degli sherpa del Consiglio europeo sul tema, a margine dei quali si è messo a riflettere su quanto si perderebbe dello scambio reciproco anche culturale intercorso tra Gran Bretagna e Continente dal dopoguerra a oggi, a partire da cose apparentemente non connesse con il “no” alla Ue pronunciato Oltremanica: dai film francesi ai Beatles (prima di addentrarsi con chitarra e voce nei meandri della musica brasiliana, Gualtieri è stato cultore certosino dei quattro di Liverpool – canzone preferita: “A day in the life”). “Pensa alla nostra matrice comune”, ha detto un giorno Gualtieri al premier britannico Theresa May. Lo ha raccontato lui stesso, a fine 2018, durante il web talk “Alta fedeltà”, trasmissione in cui gli europarlamentari si raccontano attraverso una playlist musicale e cinematografica, e non a caso Gualtieri si è dilungato, in quell’occasione, sul suo film-feticcio, “Una vita difficile” di Dino Risi: in quel film c’era già tutto, diceva con l’aria malinconica tipica dei cosiddetti “ragazzi del boom”, la generazione nata negli anni Sessanta da genitori venuti dalla guerra. E, nel rievocare le gesta di Silvio Magnozzi alias Alberto Sordi, Gualtieri allude al modo “ironico ma crudo” e alla “leggerezza e profondità” con cui Risi descrive l’Italia che passa dalla speranza alla disillusione (e alla corruzione), e lo fa colpendo per sempre l’immaginario di chi, come lui, si definisce persona “che ha sempre avuto valori di sinistra” (a Roma, quartiere Monteverde, ne parlano come di uno che “alla Fgci era già come oggi: preciso, gentile ma non malleabile come suggerirebbe il suo aspetto bonario”). La solidità da negoziatore viene invece a Gualtieri, narrano i testimoni dell’epoca, dagli anni pre Pd in cui non c’erano primarie, ma il congresso e basta. Capitò infatti a Gualtieri, un giorno, ricorda il deputato e presidente pd Matteo Orfini, l’inversione di ruolo che non ti aspetti (e a cui i compagni l’avevano in qualche modo costretto): chi come lui aveva nomea da intellettuale, infatti, in fase congressuale veniva solitamente messo al lavoro nella commissione politica, per redigere il cosiddetto “documento”. Invece quella volta il futuro europarlamentare si trovò a far parte della meno tranquilla commissione elettorale, dove ci si prendeva a mazzate per questioni ben più terrigne: posti e cariche, nell’ottica dell’equilibrio tra correnti. Ancora oggi Gualtieri scherza su quell’esperienza particolarmente formativa: “Devo aver imparato qualcosa”. Fatto sta che, pur sapendo negoziare, a volte ha fatto arrabbiare i tedeschi, come testimonia un editoriale uscito sull’Handelsblatt il 18 novembre 2018, a firma Ruth Berschens (“il presidente italiano del comitato economico del Parlamento europeo ha fatto del male all’Unione bancaria”, scrive Berschens: “Da un lato, Gualtieri ha violato il suo dovere di neutralità: nel processo di nomina per il capo della vigilanza bancaria della Bce (Eba) ha promosso la candidatura del suo connazionale Andrea Enria – sebbene anche il concorrente Sharon Donnery abbia fatto bene in un’audizione parlamentare. Peggio ancora, Gualtieri ha ridotto il vicegovernatore della Banca centrale irlandese a una donna-quota. Donnery gode di un’ottima reputazione negli ambienti delle banche centrali. Il fatto che Gualtieri non menzionasse la sua qualifica professionale in nessuna delle sue lettere alla Bce e si riferisse al sesso come l’unico argomento a favore di loro era causa di irritazione”). Tuttavia Gualtieri si prende le sue rivincite.

  


Gli esordi alla Fgci e nell’ex Pci (area D’Alema), il prosieguo da prof. alla Sapienza e all’Istituto Gramsci, gli anni di “renzismo”


 

A capo di una delle più importanti commissioni del Parlamento Ue, è a lui, tra gli altri, che anche i sovranisti che contro l’Europa sbraitano devono e dovranno guardare per evitare che l’Italia finisca nella lista dei paesi da mettere dietro la lavagna con le orecchie da asino. E e a lui guarda anche chi, da altri paesi, vuole che i sovranisti italiani vengano, se non messi nella seconda fila mediatica (cosa impossibile, vista la superproduzione social di Matteo Salvini), quantomeno depotenziati. Non per niente Gualtieri, nelle rare interviste, si dice senza falsa modestia orgoglioso delle cose fatte, motivo per cui qualche giorno fa ha ritwittato, commentandolo con un “ci facciamo valere”, un articolo del Messaggero in cui si parlava del cosiddetto “compromesso Gualtieri”: “Bond garantiti, sventato blitz contro le banche italiane”. E in giugno, a governo gialloverde appena insediato, su “Left Wing”, a quattro mani con il deputato pd Claudio Mancini, Gualtieri aveva scritto che “l’impegno, già contenuto nel contratto di governo tra Movimento 5 Stelle e Lega, a introdurre la flat tax con ‘aliquote fisse’ e ‘un sistema di deduzioni che possa garantire la progressività dell’imposta’”, gli pareva “un grande imbroglio”: “E’ sufficiente, infatti, visualizzare su una carta geografica i paesi che adottano un sistema fiscale di tipo progressivo e quelli dove è in vigore la flat tax, per comprendere come le due formule siano antitetiche e che l’adozione in Italia della flat tax renderebbe il nostro paese più ingiusto e più povero, allontanandolo dalla cerchia di nazioni prospere e socialmente avanzate dell’Europa occidentale…”. Con Mancini, Gualtieri non condivide soltanto la visione economica, ma anche gli anni di iniziale militanza nella Fgci e nell’ex Pci-Pds-Ds nel periodo delle mobilitazioni universitarie, prima e dopo la Pantera. Ex studente del liceo Visconti, già avviato a una brillante carriera come storico alla Sapienza, accademicamente “figlio” di Giuliano Procacci e Renzo De Felice, Gualtieri, oltre a farsi le ossa come dirigente politico, cominciava a sviluppare quella che gli amici definiscono scherzando “una passione solo sua”: quella per bossanova e samba, anche detta “musica o jejè-o jejè” da chi, come Mancini, si trovò più volte, alle feste, a dover guidare l’assalto alla consolle onde sventare lo svuotamento della pista durante il turno-dj di Gualtieri (tutte quella saudade forse non invogliava alle danze). Tuttavia Gualtieri non soltanto ha proseguito imperterrito a proporre melodie brasiliane nelle occasioni conviviali, anche mettendosi personalmente a cantare e suonare la chitarra (cavallo di battaglia: “Bella ciao” arrangiata con sonorità bossanova), ma in Brasile si è recato più volte con la moglie, in vacanza e non, dagli anni Novanta in poi e fino all’anno scorso quando, in attesa della sentenza sull’ex presidente Lula, è andato a trovarlo in carcere e, a nome dei socialisti e progressisti europei e di vari ex ministri italiani, ha espresso in portoghese, davanti alle telecamere locali, tutto il suo disappunto: “Lula ha reso il Brasile più simile all’Europa coniugando politiche di crescita economica e eguaglianza sociale… Siamo qui per esprimere solidarietà e inquietudine in relazione alla situazione di un presidente che è stato condannato senza prove ed è incarcerato prima del giudizio definitivo, contrariamente a quanto prescrive la Costituzione brasiliana. Ho letto attentamente tutta la sentenza del processo e sono rimasto scioccato per l’assenza di prove e di colpe”.

     


Le parole scritte da Gualtieri agli albori del Pd, e quelle dette di recente ai tedeschi (che a volte si arrabbiano con lui)


     

Da docente di Storia contemporanea alla Sapienza e studioso all’Istituto Gramsci (allora diretto da Giuseppe Vacca), Gualtieri – con formazione classica e impostazione togliattiana – scriveva invece articoli e libri sul Pci, l’Europa e la politica internazionale, e si affermava come “saggio” ai prodromi del non ancora nato Pd: presso la sede dell’Istituto Gramsci, infatti, dirigeva la rivista “La Lettera”, sulle cui pagine per la prima volta giunse la proposta di un lista unitaria dell’Ulivo per le Europee del 2004. Due anni dopo, nel 2006, con Pietro Scoppola e Salvatore Vassallo, Gualtieri è uno dei tre relatori al convegno di Orvieto che dà il via alla costruzione del Partito democratico (poi farà parte della commissione di saggi nominata da Romano Prodi per scrivere il “Manifesto” per il Pd). Titolo della relazione di Orvieto: “Il profilo culturale e programmatico del Partito democratico”. E proprio in quel testo si leggono, tra le altre cose, parole che oggi suonano inversamente profetiche: “La sconfitta del centrodestra e la bella vittoria del ‘no’ al referendum costituzionale (quello di Berlusconi, ndr) inducono a pensare che la lunga stagione dell’antipolitica, che ha fatto velo alla realtà di un drammatico declino dell’Italia, sia giunta al capolinea. Esiste nel paese una forte domanda di democrazia, ossia di una politica forte ma dotata di ‘misura’, capace di favorire e organizzare la partecipazione dei cittadini e allo stesso tempo di definire ed indicare una direzione di marcia, una prospettiva, un orizzonte”. Tredici anni dopo, l’antipolitica è purtroppo per altri versi ancora lì, e un altro “no” a un referendum, quello renziano (Gualtieri ha votato “sì”), ha allungato la sua ombra fino a oggi. E però le parole di allora restano valide quantomeno per la campagna del Pd (e di Gualtieri) per le Europee di maggio: “Il paese ha bisogno di una guida politica. Una guida capace di coinvolgere, intorno a una rinnovata idea dell’Italia, le migliori energie del paese in uno sforzo collettivo analogo a quello che nel secondo dopoguerra animò la ricostruzione e l’edificazione della democrazia. Porre il problema della nazione italiana su basi nuove significa avere una percezione realistica dei problemi del paese, ma anche delle sue grandi opportunità e responsabilità. Le opportunità che derivano dalle sue straordinarie risorse culturali e ambientali, dal genio del lavoro e dell’impresa italiani, dal ruolo che l’Italia ha di ponte tra l’Europa ed un continente asiatico che, dopo cinque secoli di ripiegamento, torna ad essere un protagonista dell’economia mondiale”. Ce n’è (forse) per risollevare il morale della truppa dem, vessata dai sondaggi in cui i sovranisti appaiono in testa. Perché alla fine il tema, quello che Gualtieri pone nei fatti, è: Salvini potrà anche prendere i voti, ma per fare cosa, poi, se non ha vero peso e credibilità in Europa?

Le negoziazioni su banche e Brexit, la critica ai gialloverdi sulla flat-tax, la passione per il Brasile (dalla bossanova a Lula)

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.