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Il fallimento dei 45 che fondarono il Pd

Agazio Loiero

Uno dei fondatori del Partito democratico spiega perché la sinistra può rinascere partendo da una parola: federale

Al direttore - Dopo pochi mesi di sussultoria navigazione governativa l’opinione pubblica avverte un senso di smarrimento. Non è solo l’azione di governo a spaventare quanto l’assenza di un’opposizione. In una parola l’assenza del Pd. In verità il partito di Martina, sia pure ridimensionato nei numeri, esiste ma appare cosi lacerato che anche i suoi tradizionali critici ne sono preoccupati. Qualche giorno fa il direttore di questo giornale ha ricordato, quasi in forma consolatoria, la grande volubilità della politica di questa inquieta stagione. “La Lega”– ha scritto – “aveva il 4 per cento alle elezioni politiche del 2013 e oggi i sondaggi le assegnano oltre il 30”. Un invito a non perdersi d’animo. A dimostrazione di quanto ad un governo privo di esperienza e soprattutto al paese giovi un’opposizione coesa. Il problema è che il Pd ha perso cinque milioni di voti in quattro anni. I motivi della sconfitta sono dunque tanti. Ne cito, per mancanza di spazio, solo qualcuno. L’arrivo impetuoso di Renzi al Nazareno e subito a Palazzo Chigi, si è avvalso di alcune circostanze fortunate che solitamente presiedono le imprese di rilievo: la grande crisi italiana e il bisogno d’illusione che in tali difficili contesti si manifesta nella nostra storia. Nel corso delle primarie del dicembre 2013 il voto in favore del sindaco di Firenze fu massiccio e venne da più parti politiche. Il Renzi che a quaranta anni non ancora compiuti s’insedia al Nazareno e subito dopo a Palazzo Chigi agitando una giovinezza ad oltranza diventa una grande speranza per il paese. Quel 40,81, conseguito dal Pd alle successive elezioni europee del 2014, ancorché drogato perché ottenuto su di una esigua platea di votanti, ha offerto ali a quella speranza. Nel clima politico di oggi sembra difficile ammetterlo ma è certo che il primo Renzi con quella autostima sconfinata – un sigillo quasi genetico della sua città - e quel perentorio piglio decisionale ha ammaliato la maggioranza degli italiani. L’incantesimo però, anche per la citata esiguità dei cicli, non è durato a lungo. Come spesso capita dall’osservatorio del governo, così carico di schermi ingannevoli, Renzi fa fatica a vedere i grandi sommovimenti che scuotono la pancia del paese. E quando su tale tema, all’interno del partito, gli viene rivolto qualche rilievo – un timido balbettio, non di più - questo quasi sempre si trasforma, complice il carattere diffidente del premier, in un insopportabile affronto.

 

Esiste poi un secondo elemento da mettere in conto nella crisi del Pd. La società italiana, come la grande parte delle società postmoderne è afflitta da un diffuso rancore, che s’annida nelle periferie delle città e che l’elezione di Trump ha legittimato a livello planetario. Ancora. La comparsa in scena dei social intensificatasi negli ultimi anni e l’abbassamento vertiginoso del livello culturale degli italiani ha creato una realtà parallela, del tutto umorale e emotiva che ha poco da vedere con la conoscenza, la cultura. Un campo esteso, quest’ultimo, che il Pd per molte ragioni storiche tenderebbe a rappresentare. L’altro ieri un giornalista attento come Federico Fubini ha svelato ai lettori del Corriere della Sera chi è il personaggio che “ha generato quasi un milione e mezzo di interazioni su Facebook. Più del premier Conte, quasi il triplo di Beppe Grillo. Si chiama Gangemi. E' un muratore calabrese, disoccupato.” Il quale oggi tira per il governo. “Vado dalla parte del governo” – spiega – perché funziona. Se faccio un post a favore di Renzi al massimo ottengo un click se scrivo contro gli immigrati viaggio molto di più”. Una realtà folle e molecolare che il Pd non può fronteggiare coi circoli. Che fare? Avanzerei tre proposte nella speranza che abbiano ancora senso. Il Pd faccia un atto di contrizione pubblica sugli errori commessi, chiami tutti, proprio tutti, anche i Leu, a raccolta, nel tentativo lungo e difficile di portare il proprio mondo storico a unità. Lo faccia, partendo dai territori. Nel dibattito dei 45, che precedette l’incoronazione di Veltroni, si discusse a lungo se nel logo il partito andava definito democratico e anche “federale”. Purtroppo quest’ultima parola svanì nelle brume del centro. Fu l’errore più grande.

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