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Come nacque il Consiglio dei Guardiani della Costituzione (un sogno siciliano)

Guido Vitiello

Variazione su Sciascia e sull’impostura di un disegno di potere

Un centone sciasciano potrebbe intitolarsi “Il Consiglio di Persia”. Lo immagino come una sotie senza grandi pretese e, neppure a dirlo, senza agganci che non siano fortuiti con fatti realmente accaduti e personaggi esistiti o esistenti: solo una bella favola orientale raccontata da un illuminista, intorno alle vicende di una penisola immaginaria al largo delle cui coste galleggia un’isola metaforica. Sarebbe – come già “Il Consiglio d’Egitto” di Sciascia, che le fa da remota ispirazione – la storia di un grandioso imbroglio filologico, giudiziario e politico, così ben riuscito da attirarsi il plauso degli imbrogliati e perfino una recalcitrante ammirazione da parte di chi ne aveva smascherato il trucco. L’intrigo parte, stavolta, non da un misterioso codice arabo conservato in Sicilia, manoscritto di una vita di Maometto, ma da un fogliaccio fotocopiato e rimaneggiato da un calunniatore maldestro; una patacca, insomma, messa al servizio di un disegno audacissimo: la riscrittura – “dal nulla o quasi” – della storia non già dei musulmani di Sicilia, come nel “Consiglio d’Egitto”, ma di una sanguinosa stagione di stragi attraversata, un quarto di secolo prima, dagli abitanti della penisola immaginaria e dell’isola metaforica. Del resto, si legge nell’originale sciasciano, “c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla”.

 

Il fine ultimo dell’impresa – portata avanti da uomini di legge in combutta con infaticabili gazzettieri coranici e scorte civiche di pasdaran – non si esauriva certo nello spacciare quest’affabulazione da pseudo-storiografi. L’impostura adombrava un ben più vasto disegno di potere: si trattava di veder sancita, con il sigillo di una sentenza, non solo la verità del falso, ma la trasformazione del corpo burocratico della magistratura della penisola in qualcosa di simile al Consiglio dei Guardiani della Costituzione dell’Iran, un organismo sacerdotale incaricato di vegliare sulla salute politica, morale e spirituale della Nazione. Da qui il bizzarro titolo del centone, “Il Consiglio di Persia”. In breve, la storia di come alcuni magistrati, funzionari dello Stato, avessero inseguito per almeno due decenni la pretesa abnorme di issarsi al di sopra dello Stato per giudicarne le condotte, montare sul tetto della Repubblica e lì piantare la bandiera della loro corporazione, in nome di quella sharia profana – tanto più proterva quanto più tautologica – a cui davano nome Legalità.

 

Già erano stati avvistati, nella penisola immaginaria e soprattutto nell’isola metaforica, muezzín in toga che si erano inerpicati sul minareto di qualche Procura e da lì avevano richiamato le folle dei fedeli perché tenessero alta, tra sventolar di lenzuola e di fiaccole devozionali, la “tensione” (così dicevano) necessaria al loro sacro compito. Ma stavolta, con la formidabile idea del “Consiglio di Persia”, l’impresa era più coordinata e più spericolata a un tempo. L’azzardo era stato premiato da una corte, e così gli eroi isolani della “magistratura costituzionale”, come l’aveva ribattezzata un suo scarruffato eroe, propugnatore della tesi islameggiante secondo cui la fedeltà essenziale dei giudici è alla Costituzione, non alla legge ordinaria, potevano atteggiarsi a Guardiani barbuti e inturbantati.

 

Come continua la storia? Provo a immaginarne un’appendice, una coda, anch’essa un centone sciasciano, che potrebbe aver nome “La sentenza memorabile” o meglio ancora “Il Consiglio dei Dieci”, come l’antico organo politico e giudiziario della Repubblica veneziana. Si narra infatti che il segretario del Consiglio, dopo il terribile errore giudiziario che nei primi del Cinquecento era costato la vita a un garzone di fornaio, falsamente accusato di omicidio, usasse ammonire i consiglieri prima della pronuncia di ogni sentenza con la frase in vernacolo: “Recordève del poaro fornareto”. Nella mia fantasticheria letteraria, dov’è in ballo la vita non di un fornaio ma di una Repubblica malconcia, un cancelliere disperato si aggira per i tribunali lanciando ai giudici un monito più sibillino e presago: “Memento Mori”.

 

(Qui finisce la rêverie, frutto di pura immaginazione; ma già che l’inconscio tesse i nostri sogni mettendo insieme i fili sfilacciati dei “residui diurni”, sospetto che questo nasca da una battuta folgorante del veterano garantista Mauro Mellini sulla sentenza memorabile di Palermo: “Khomeinismo senza il Corano”).

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