Matteo Salvini (foto LaPresse)

Le condizioni necessarie e sufficienti per avere l'appoggio del Pd in un eventuale governo Lega-M5s

Alberto Irace

Salvaguardia del Jobs Act, invariabilità del debito pubblico, sostegno all’euro e all’Europa, sostegno a una riforma elettorale che assicuri governabilità sulla base di un premio di maggioranza. Ecco i limiti

Al direttore

La maggioranza politica autentica che il voto ci ha consegnato, ha ragione lei, è quella antieuro, protezionista e di una nuova spesa pubblica che si è chiaramente espressa col consenso al Movimento cinque stelle e alla Lega di Matteo Salvini. È questa la linea politica che gli italiani hanno scelto. È prevalsa l’idea di una società chiusa, impaurita, con poca fiducia in se stessa, pronta a tutto pur di cercare di salvare la pelle e desiderosa di un nuovo ciclo di spesa pubblica per lenire le ferite della crisi. Intendiamoci, si tratta di un’illusione destinata a infrangersi contro la compatibilità con la realtà di un mondo sempre più interdipendente nel quale la piccolissima Italia non ha nessun margine per fare da sola e nel quale, in tale prospettiva, ha certamente più rischi che opportunità. Ce lo ricorda, proprio in questi giorni, lo scontro protezionistico su acciaio e alluminio aperto da Trump, dove forse neppure tutta l’Europa unita potrà cavarsela senza tener conto della Cina, e ce lo ricordano le tristi vicende dell’Ilva e dell’Alitalia. Eppure gli italiani, estenuati da una lunga crisi, hanno preferito mettere la testa sotto la sabbia, ma si sono espressi in modo chiaro alle elezioni e proprio in quella direzione.

 

La faticosa ricerca delle compatibilità, della creazione di ricchezza grazie a una ritrovata competitività fondata sul rigore e la produttività, sono uscite sconfitte e in maniera inequivocabile in favore di ostilità all’euro e all’Europa, neoprotezionismo, reddito minimo garantito. Sarebbe dunque il caso che proprio le forze che su ciò hanno incentrato la loro offerta politica si assumessero la responsabilità di provare a praticare ciò di cui sono convinte e che hanno proposto in campagna elettorale. Tuttavia, questa maggioranza, è resa frammentata dal peso della storia politica italiana: la Lega, infatti, appare prigioniera di una formula politica – il centrodestra – ormai priva di senso. Può darsi che pensi a questo Luigi Di Maio quando dice, con ragione, che destra e sinistra non significano più nulla e che gli elettori si sono espressi sui temi, sulle scelte di merito. In questo quadro è comprensibile la posizione assunta da Matteo Renzi di totale indisponibilità alla ricerca di soluzioni di governo. Prende atto della volontà degli elettori. Tuttavia questa linea, nella confusa transizione che tiene prigioniera la Lega, sarà costretta a fare i conti con la verità oggettiva che nessuna delle formazioni presentatesi agli elettori ha una maggioranza.

 

Questa si costituirà solo se e quando le forze in campo abbandoneranno o trasformeranno, almeno in parte, il quadro che hanno proposto agli elettori il 4 marzo. Con le pur legittime questioni di orgoglio in politica non si va lontano, e credo che Matteo Renzi sarà costretto a far evolvere la sua posizione in una vera e propria sfida di merito. Così com’è stata proposta, la linea dell’ex presidente del Consiglio rischia di apparire una scelta pregiudiziale e rischia di logorarsi tra le mille tensioni e piccole aspirazioni e interessi che pur attraversano il suo partito uscito dalle urne. Per queste ragioni il Pd e le forze europeiste che volessero condividere un simile approccio dovrebbero ancorare la linea a poche significative irrinunciabili condizioni cui far dipendere il sostegno tecnico alla formazione del governo, a partire da ciò che si ritiene corrisponda all’interesse generale del paese. Intendiamoci, un quadro di limiti più che di proposte, una sorta di decalogo del male minore.

 

Dovrebbero ribadire la totale indisponibilità a condividere la gestione del potere: nessuna negoziazione sulle “poltrone” e di nessun genere, dalle presidenze delle assemblee ai posti di sottogoverno: questa responsabilità spetta a chi ha vinto. In questo modo si smarcherebbero dall’accusa strisciante di partiti interessati al potere per il potere, agli accordi sottobanco, agli inciuci.

Dovrebbero porre poche condizioni programmatiche irrinunciabili, paletti di merito, vincoli che tutelano l’interesse del paese nel lungo termine. In questo modo innanzitutto il Pd può riguadagnare una funzione nazionale che, io credo, lo rimetterebbe rispettabilmente in sintonia con una parte importante degli elettori:

 

1) Salvaguardia del Jobs act, della legge Fornero, delle riforme dei diritti civili e dell’obbligatorietà dei vaccini: nessuno può chiedere al Pd e a chi le ha varate di smantellarle;

  

2) Invariabilità dell’attuale livello di debito pubblico, si fissi un numero preciso, proprio come fa il parlamento degli Stati Uniti d’America, si assumano i 2.256 miliardi di euro di fine 2017 come limite invalicabile. Il nuovo governo operi come ritiene sulla base del suo programma, ma senza generare nuovo debito, senza rubare altro futuro alle giovani generazioni finanziando nuova spesa pubblica;

 

3) Sostegno all’euro e all’Europa: si critichi quanto si vuole, si discuta anche aspramente con i partner, ma senza mai mettere in discussione il percorso comune europeo e la moneta unica;

 

4) Sostegno a una riforma elettorale, da approvare con un ampio coinvolgimento del Parlamento, che assicuri governabilità sulla base di un premio di maggioranza.

 

Il Pd e gli europeisti si dichiarino disponibili a far nascere un governo di minoranza, sia esso a guida Cinque stelle o del centrodestra, che rispetti questi limiti e si impegnino a sostenerlo a queste condizioni, senza chiedere nulla in cambio, per il solo interesse dell’Italia e fino a quando rispetterà questi pochi limiti e condizioni nella concreta azione di governo diventando i veri garanti della legislatura. La discussione interna al Pd potrebbe concentrarsi su come reinsediarsi nel paese e riproporsi agli elettori alle prossime elezioni, su come rinnovare i gruppi dirigenti locali e nazionali. Se tali condizioni non fossero ritenute praticabili, come credo, sarebbe chiaro a tutti che al Pd e agli europeisti non si può chiedere di essere corresponsabili di ciò che essi ritengono strutturalmente contrario all’interesse del paese. Una simile posizione di queste forze permetterebbe al presidente Mattarella di compiere il suo ruolo sollecitando le forze che hanno vinto le elezioni, ma che non dispongono di una maggioranza, a misurarsi col merito della concreta fattibilità dei loro programmi e non a riproporre gli slogan della campagna elettorale oppure ad assumere la responsabilità di una piattaforma che intenda sovvertire i limiti di compatibilità con l’Europa ed i mercati sostenendola però con una maggioranza coerente con essa che comprenda, appunto, sia il Movimento cinque stelle sia la Lega. In questo modo il Pd e le forze europeiste avrebbero di certo contribuito a rendere la democrazia italiana un po’ più chiara e comprensibile agli elettori che hanno votato qualche giorno fa e a quanti ci guardano dal resto del mondo.

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