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Di sana e robusta opposizione. Stare dalla parte del 50 per cento che vuole l'Europa

Claudio Cerasa

La pericolosa “svolta di Salerno” (nel senso del direttore di La7), cioè garantire a Di Maio il governo. L’assurda idea di tacere e piagnucolare. Serve un’opposizione che dica forte i suoi valori non negoziabili e costruisca il nuovo campo bipolare

In un paese mediamente normale, quando due partiti vincono nettamente le elezioni e uno le perde nettamente il dibattito pubblico tende a concentrarsi poco sul ruolo del perdente e tende a concentrasi molto sul ruolo del vincitore e prova cioè a mettere a fuoco perché i partiti che hanno vinto hanno il dovere di governare e perché i partiti che hanno perso hanno il dovere di non governare. Nel caso specifico, in Italia, le elezioni del 4 marzo hanno certificato che gli elettori hanno premiato due partiti, il Movimento cinque stelle e la Lega, e hanno bocciato un partito, il Pd, ricordando al paese che la maggioranza che si era già imposta clamorosamente il 4 dicembre del 2016, al referendum costituzionale, era non una maggioranza effimera ma una maggioranza solida, compatta, unita da un progetto politico tutto sommato facile da identificare: creare un’alternativa forte al modello di governo incarnato negli ultimi anni dal Pd. Può piacere o no, ma quando due elezioni importanti (il 4 dicembre e il 4 marzo) ti dicono che gli elettori hanno scelto di dare fiducia a qualsiasi partito diverso dal Pd l’argomento di discussione in vista di una possibile trasformazione della maggioranza elettorale in maggioranza di governo dovrebbe essere finalizzato a parlare di questo: di tutto tranne che del partito perdente. Eppure, misteriosamente, forse perché parlare dei perdenti è meno faticoso che parlare dei vincenti, dal 5 marzo, dal giorno dopo il voto, il tema che eccita buona parte del circo mediatico italiano non è quello di ricordare che chi ha vinto le elezioni ha il dovere, l’onore e l’onere di governare ma è quello di ricordare che chi ha perso le elezioni avrebbe il dovere di mettere “responsabilmente” a disposizione i suoi voti al servizio di un governo. Nelle ultime settimane, e proviamo ad arrivare al punto, in molti si sono sentiti in dovere di condannare la scelta del Partito democratico di leggere il risultato del 4 marzo come una richiesta degli elettori di far governare qualsiasi partito diverso dal Pd e su questo punto, se vogliamo, la condanna più severa è quella arrivata su Twitter dal direttore de La7, Andrea Salerno, il quale, senza nascondersi, ha denunciato “la follia politica del secondo partito italiano che si consegna all’opposizione di un governo che ancora non esiste”, ricordando Spadolini che “con il 3 per cento fece il presidente del Senato” e ricordando che “partiti più piccoli sono riusciti ad esprimere persino il presidente del Consiglio”.

 

 

Le parole, oneste, sincere, dirette, del direttore della tv di Urbano Cairo (il Corriere la pensa più o meno allo stesso modo: Pd salvaci tu) sintetizzano meglio di ogni possibile editoriale un sentimento molto diffuso in un pezzo di classe dirigente del paese. E quella che potremmo definire “la svolta di Salerno” merita di essere messa a fuoco se non altro per porci una domanda: in un quadro dove esistono due vincitori pronti a governare e uno sconfitto pronto a fare opposizione può aver senso sperare che uno dei due vincitori faccia opposizione e uno dei perdenti vada in soccorso dei vincenti? All’amico Andrea Salerno forse la nostra risposta non piacerà ma nell’Italia di oggi, quella uscita dal voto del 4 marzo, per chiunque voglia scongiurare di regalare a uno tra Di Maio e Salvini l’opposizione a uno tra Di Maio e Salvini la risposta dovrebbe essere ovvia: chi ha perso le elezioni oggi non ha solo il diritto di non andare al governo ma ha persino il dovere di custodire come se fosse un panda lo spazio politico alternativo a quello presidiato dai due nuovi populismi di governo.

 

Il nostro ragionamento non è astratto ma è legato a un principio perfettamente sintetizzato domenica scorsa sul Sole 24 Ore dal professor Sergio Fabbrini: “La politica italiana acquisirà un formato bipolare solamente quando si aggregherà un polo alternativo e competitivo di orientamento europeista”. Il punto, per chi lo vuole vedere, è esattamente questo. Il 4 marzo una maggioranza sostanziale di elettori ha disgraziatamente offerto la sua fiducia a due partiti gemelli che hanno le stesse idee su Europa, lavoro, pensioni, trattati, deficit, euro, nazionalismo, sovranismo e protezionismo. E per quanto possa essere duro accettare il risultato delle politiche la sovranità popolare non la si può negare e per questo Lega e Movimento cinque stelle (e Forza Italia) hanno il dovere di trovare una formula per governare insieme (e con Flick o con Flock la formula si troverà).

 

Dall’altro lato un partito che ha scelto di scommettere sulla globalizzazione, sull’apertura, sull’Europa, sul rispetto dei trattati europei, sull’attenzione ai conti pubblici, sulla difesa della legge sulle pensioni, sulla tutela della legge sul lavoro è stato bocciato dall’80 per cento degli elettori eppure paradossalmente si ritrova oggi di fronte a una prateria che forse non riuscirà a rappresentare (forse il Pd non ha più senso) ma che nonostante questo è doveroso presidiare: lo spazio di chi di fronte alla nascita di un governo fortemente non europeista contrappone un progetto fortemente europeista. Il discorso lo conoscete: il 50 per cento degli elettori italiani ha trovato una o più case capaci di raccogliere l’indignazione, il restante 50 per cento di elettori italiani è alla ricerca di una casa politica che ancora non c’è costruita più sulla proposta che sulla protesta. Il problema dunque non è chiedersi se sia giusto o no per il Pd fare opposizione – i grillini che provano a coinvolgere il Pd in un governo con il Cinque stelle lo fanno perché hanno bisogno di un alibi per poter giustificare l’accordo con Salvini e per non ammettere a se stessi che il grillismo non è una naturale evoluzione del riformismo ma è solo una naturale sfumatura del leghismo – ma è chiedersi semmai come fare opposizione. E qui le questioni diventano più complicate da affrontare.

 

A voler essere estremamente sintetici potremmo dire che ci sono almeno quattro diverse opzioni per potersi muovere come una sana e robusta opposizione.

 

La prima opzione è quella sciocca del piagnisteo e funziona più o meno così: voler cancellare tutto quello che è stato il Pd negli ultimi anni, voler confinare il renzismo in un cestino della storia, voler investire sulla formula dell’abiura e voler regalare i voti dei parlamentari Pd al Movimento cinque stelle per evitare, responsabilmente, di far nascere un governo populista e permettere al Pd di tornare a essere credibile con l’elettorato grillino. Difetto di questa opzione: regalare a Salvini l’opposizione a Di Maio (che sarebbe come regalare a Bannon l’opposizione a Trump o a Fratoianni l’opposizione a Corbyn), costringere l’unico soggetto politico europeista a scendere a compromessi con l’anti europeismo grillino, voler follemente confinare all’opposizione una coalizione che ha preso il 37 per cento dei voti.

 

La seconda opzione è quella altrettanto sciocca della tigna silenziosa: è quella cioè di chi sceglie di fare opposizione limitandosi a dire “dobbiamo fare opposizione” senza spiegare come debba essere una buona opposizione e senza offrire cioè al paese una chiave di lettura diversa rispetto a quella del semplice posizionamento politico: se loro stanno di là, noi non possiamo che stare di qua. Difetto della posizione: si rischia di non entrare nel merito, di creare un’opposizione al grillismo simile all’opposizione creata a lungo al berlusconismo e di non far pesare nel dibattito pubblico il proprio, seppur marginale, consenso politico.

 

La terza sciocca, stolta, pigra e scellerata forma di opposizione è quella dell’apprendista manovriero che sulla base di una non proposta tenta con giochini da caminetto di forzare il risultato elettorale provando ad andare al governo per non far governare insieme i vincitori: dobbiamo sacrificarci per non avere sulla coscienza un governo tra Di Maio e Salvini. Difetto della posizione: mettere il consenso raccolto alle elezioni al servizio non di un progetto strategico ma di un caminetto di potere. La quarta opzione è forse quella, l’unica, più saggia che consisterebbe in una formula semplice: non avere titubanze e presidiare con orgoglio lo spazio dell’opposizione fissando anche provocatoriamente i paletti della propria traiettoria politica. Sull’Europa, sull’euro, sul lavoro, sul Jobs Act, sulle pensioni.

 

La quarta opzione è quella di una opposizione parlante, non muta, che non sceglie di mettere i propri voti al servizio degli altri ma sceglie semmai di mettere in campo un’operazione politica semplice: mostrare preventivamente i propri valori non negoziabili mettendoli a disposizione degli altri partiti promettendo di votare la fiducia a un qualsiasi governo capace di non toccare, per esempio, la legge sulle pensioni, di non toccare la riforma sul lavoro, di non promuovere politiche protezionisti, di non rimettere in discussione l’euro, di non distruggere i trattati europei, di non portare avanti politiche di discontinuità sulla Nato, sull’atlantismo, sugli interventi militari, sulle politiche di sicurezza nazionale, sulla Difesa comune, sull’Unione bancaria. Un’opposizione ben posizionata nel solco dell’anti sfascismo e dell’anti anti europeismo è l’unica opzione capace di scongiurare una svolta di governo – una svolta di Salerno? – finalizzata cioè solo a rendere impossibile un governo dei vincenti. Avere un’opposizione sana e robusta e parlante non è solo un pigro capriccio degli anti populisti ma è al contrario un modo utile per ricordare (a) che le idee giuste non diventano sbagliate solo perché perdenti e che (b) la politica italiana oggi ha un’occasione forse irripetibile: acquisire un formato bipolare grazie all’aggregazione tra poli alternativi e competitivo di orientamento europeista. L’interesse nazionale oggi non è tradire la volontà popolare ma è quella di costruire uno spazio in cui far maturare una non tolleranza contro i nuovi intolleranti della democrazia, cercando una formula giusta non per far rinascere un caminetto ma per trovare una formula appropriata per incoraggiare una sana e robusta opposizione all’Italia dello sfascio anti europeista. Quando il Pd, giovedì prossimo, parteciperà al primo giro delle consultazioni farebbe bene a partire da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.