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Se non si cura la gestione i progetti restano teoria, dice Calenda

Per il ministro dello Sviluppo economico bisogna implementare i programmi per capire che cosa funziona e che cosa non va

Questa intervista è uscita nell'inserto mensile del Foglio "Ottimisti e razionali" (che potete acquistare qui)

 


 

Incontriamo Carlo Calenda nel suo studio al primo piano del grande palazzo del Ministero per lo Sviluppo economico, quello progettato da Marcello Piacentini con le vetrate di Sironi. Niente cravatta, giacca blu e camicia bianca; subito del tu: semplicità e convinzione.

 

Ma restiamo al lei, Signor Ministro. Cominciamo dal principio: com’è che un manager (Ferrari, Sky) finisce in politica? “La base di partenza è stata l’esperienza in Confindustria, un’esperienza un po’ al confine con la politica: il fatto è che da quel punto di osservazione guardi oltre, al di là del bilancio dell’azienda. In particolare in Confindustria mi ero occupato della parte internazionale. Dopo di che c’è stata Italia futura che poi successivamente è confluita in Scelta Civica…”.

 

Lei non è deputato vero? “Non sono stato eletto. E’ successo questo: all’inizio dovevo essere candidato come capolista a Napoli. Tuttavia avevo gestito una grande concessione pubblica, e cioè Interporto Campano, una delle aziende più grande della Campania, e insomma pensai fosse una sciocchezza, non potevo essere candidato a Napoli. Oggettivamente, venendo dalla gestione di Interporto, significava incorrere in un conflitto di interesse. Quindi chiesi di essere spostato a Roma, ma a Roma ormai le liste erano fatte – ero mi sembra al quarto o quinto posto – e non fui eletto… poi sono diventato vice ministro per il Commercio Estero, funzione che tra l’altro era molto in linea con la mia esperienza in Confindustria, lì come ho detto accompagnavo le industrie all’estero…”. Gli chiediamo se il profilo manageriale gli è servito. E il Ministro risponde prendendola alla larga: “Io penso che il tema fondamentale che abbiamo in Italia, ancora più importante delle riforme, sia quello della gestione. In Italia è anche teorizzata la separazione tra ruolo politico che serve a dare l’indirizzo e ruolo gestionale che è affidato alla burocrazia. Questo aspetto è alla base di molti problemi italiani, nessuna organizzazione può sopravvivere con uno che dà delle direttive e poi se ne frega di come e se vengono attuate”. Ma, allora, come si muove nel concreto il ministro Calenda? “Quello che cerco di fare è partire dall’analisi di quello che si può fare per poi decidere cosa è giusto fare. Non funziona nell’altro verso, cioè decidere cosa è giusto fare in astratto. In fondo è anche la storia della politica industriale italiana. Per esempio, industria 2015 era questo: un interessantissimo esercizio accademico per definire settori e strumenti, ma che non è mai atterrato da nessuna parte, la realtà funziona in modo diverso…”. Insomma: la gestione è tutto o quasi tutto… “Ancora una volta, secondo me la gestione, cioè fare il follow up, capire perché i fondi non si spendono, cancellare quelli che non si spendono, ristrutturare gli strumenti in modo che possono essere usati in concreto e non in astratto, insomma tutti questi aspetti sono fondamentali per l’Italia. Sì, più delle riforme. Ne sono profondamente con- vinto. Quindi in concreto io mi muovo così: cer- co di stare tutto il tempo al Ministero, lavorare con i Direttori. La mia esperienza mi dice che se stai con il sedere sulla sedia, proprio come se il Ministero fosse un’azienda, tu le cose le fai, non cè nulla che non puoi fare, se curi la gestione. Ci interessa approfondire un elemento: se cè una differenza di linguaggio, tra profilo mana- geriale/aziendale e quello politico/ministeria- le. Calenda, che ci parla intorno a un tavolo qua- drato, non dalla sua poltrona dietro la scrivania, risponde così: “Il Ministero può essere gestito con dei processi simili a quelli aziendali, tutta- via, in azienda, il tuo obiettivo è realizzare un profitto per degli azionisti, in un Ministero è re- alizzare dei profitti per i cittadini. Come questo profitto si realizza e si distribuisce, beh, tutto questo è molto più complicato e diciamo la ve- rità più bello e intellettualmente più profondo: in azienda alla fine cè una bottom line, quello che hai guadagnato e quello che hai perso, in un Ministero devi tenere conto di tutti gli interes- si. La prima cosa che impari è che ogni azione ha elementi positivi e negativi per diverse cate- gorie di cittadini, è rarissimo che un’azione sia univocamente positiva. In genere accanto agli aspetti positivi ci sono quelli negativi e tu devi prenderti cura anche di quest’ultimi. Questa è la parte interessante e bellissima del lavoro, per- ché regala una profondità allanalisi e allazione che nessuna azienda ti . Governare significa una grande composizione degli interessi par- ticolari con l’interesse generale. Un esempio? Torniamo sempre lì: essere nella gestione del- le cose. La definizione delle linee strategiche l’ho presentata in Parlamento un mese e mez- zo dopo il mio insediamento la potete trovare sul sito del Ministero e un anno dopo ho pre- sentato un consuntivo: quello che ho portato a casa, quello che non ho portato a casa, e perché non ha funzionato. Ancora una volta, le linee guida che possono occupare uno, due, tre mesi del tuo tempo e rispondono alla tua visione dell’interesse generale si rivelano inutili senza implementazione”.

 

Ma non provoca frustrazione il fatto che queste fasi importanti, fondamentali, e cioè l’implementazione e la gestione devono poi passare attraverso il Parlamento e altre strettoie burocratiche? “Non c’è dubbio – risponde il Ministro – è un problema: non siamo un paese orientato all’execution, per usare un orrendo termine manageriale, siamo un paese tutto orientato alla discussione. E le procedure di fondo sono costruite male perché abbiamo uno profondo scetticismo nelle nostre stesse capacità di decisione ed esecuzione. Costruiamo le procedure in modo barocco per evitare che ci sia discrezionalità, perché non ci fidiamo di quella discrezionalità, in fondo. Ma cosa altro è la politica se non decisione, implementazione e sanzione? Sanzione politica intendo. Insomma, c’è una profonda insicurezza sulla capacità di perseguire un interesse generale, e poi in fondo c’è un patto tra la politica e la burocrazia, la politica fa le conferenze stampa e la burocrazia gestisce…”.

 

Ma perché, se c’è una vicinanza tra azienda e amministrazione, gli imprenditori scesi in politica non sono stati capaci di risolvere i problemi? “Perché imprenditoria e politica sono cose profondamente diverse. L’imprenditore è uno che la mattina si alza e pensa tutto il giorno a una singola cosa in nome di un singolo interesse, magari con coraggio e determinazione. L’imprenditore è single minded: devo fare questo posacenere nell’unico modo che io solo ho visto, perché c’è una opportunità che solo io ho visto e, costi quel che costi, lo farò. Naturalmente, detto questo, l’imprenditore nella campagna elettorale funziona, perché ha un obiettivo univoco su cui deve impegnarsi. Ma la gestione della cosa pubblica è tutt’altro. È la gestione dell’interesse diffuso che è difficile. Qualunque cosa fai non è la trovata, la soluzione unica che solo tu hai visto e capito e su cui ti spendi. Nella gestione del pubblico ci sono sempre sfaccettature di interessi di cui tenere conto, e tu devi rappresentarli tutti: questa è la differenza antropologica tra imprenditore e manager”. Ministro Calenda, visto che ormai siamo in campagna elettorale, quali questioni vorrebbe vedere affrontate nel dibattito? “Credo che si debba riportare il dibattito alla normalità. Sarebbe già una conquista. Per esempio la creazione di posti di lavoro: si fa solo attraverso gli investimenti delle imprese che assumono persone. Il processo è: investimenti, lavoro e reddito, e non si può invertire. Qual è la situazione italiana? L’Italia va, ma è ancora una porzione troppo piccola ad aver lasciato alle spalle la crisi. Per questo i dati fanno impazzire e appaiono contraddittori. E i cittadini si chiedono: ma perché, per esempio, i dati sull’export dicono che noi oggi facciamo (gennaio/novembre) più 7,9%, la Germania fa 7 e la Francia fa 5? Come mai gli investimenti industriali aumentano più che in Germania e Francia eppure il benessere è inferiore? Perché oggi non c’è una Italia, ci sono Italie diverse e questo gruppo di imprese è troppo piccolo per dare benessere a tutti. Quindi bisogna puntare al suo allargamento. Come? Puntando all’internazionalizzazione delle imprese, facendo competere e investire più imprese. E quindi generando più occupazione. Bisogna lavorare sui fattori che favoriscono queste dinamiche”. Che sono? “Fiscali, energetici, burocratici e di competenze”. Di questi tre forse quello burocratico è il più importante… “No, non sono convinto. Per esempio sul settore delle competenze oggi c’è un mismatch totale. Voglio fare un esempio, anche per capire perché è importante riportare il dibattito elettorale alla normalità. Oggi tu hai un problema di lavoro e allo stesso tempo una domanda di lavoro qualificato in alcuni settori; allora perché non partiamo dalla riforma del Sistema ITS, quello che raggruppa i percorsi di Specializzazione Tecnica Post Diploma? Basterebbero 400 milioni di euro per arrivare a 100 mila studenti contro gli 800 mila tedeschi ed i nostri attuali 9 mila. Meno di un quarto dell’abolizione del canone Rai o delle tasse universitarie, ma produrrebbe un risultato sicuro. Un altro esempio: ci sarà fra poco una stretta creditizia – è certo che le regole saranno più rigide – e noi abbiamo il Fondo centrale di garanzia che sta funzionando molto bene. Nella sostanza tu hai una leva di 1 a 20. Per ogni miliardo che lo Stato perde per le garanzie escusse ne garantisco venti. Bene, usiamolo meglio. Invece di mettercene uno mettiamocene tre, quattro. Queste cose hanno un riscontro immediato. Tra l’altro c’è un problema di allocazione del capitale: tutti gli incentivi di industria 4.0 sono fatti così, fiscali, neutrali, automatici. Tu dici: caro imprenditore devi investire nel 2017 con un impatto immediato sul Pil. Le quote di ammortamento sono su cinque anni, quindi tu hai l’effetto sul Pil sul primo anno ma paghi, come Stato, nei successivi cinque. Ancora una volta: è importante pensare alle questioni di gestione, esaminare gli strumenti, non solo gli obiettivi”.

 

Se lei rimanesse Ministro, su cosa continuerebbe a lavorare, quali sono i pezzi ancora mancanti? “Molti. Ci sono due strategie, di attacco e di difesa. Strategia di attacco: sul commercio internazionale continuiamo a chiudere accordi di libero scambio perché si aprono i mercati e se ne giovano le nostre Pmi. Strategia di difesa: non concediamo più un centimetro se non c’è equivalenza dall’altro lato, perché non è affatto vero che l’industria deve morire nei mercati occidentali. Ancora, stessa cosa sugli investimenti: attacco e difesa per attrarre più investimenti possibili. Quindi più strumenti da utilizzare per fare in modo di attrarre investimenti, per questo abbiamo riformato i contratti di sviluppo dove ho dato priorità discrezionale ai grandi investimenti: non si può pensare che un agriturismo debba stare davanti nella coda rispetto alla General Electric che produce turbine. Solo in Italia accade questo. Difesa: se ho un investimento predatorio che viene qua per comprare il know how e spostarlo, allora io gioco in difesa: non glielo consento e per questo abbiamo rafforzato i poteri di golden power. La stessa strategia a due facce si può articolare sulla politica industriale: andare avanti su industria 4.0, ma anche rafforzare gli strumenti per gestire le crisi e le transizioni industriali che saranno sempre più veloci e profonde”.

  

investimenti: non si può pensare che un agriturismo debba stare davanti nella coda rispetto alla General Electric che produce turbine. Solo in Italia accade questo. Difesa: se ho un investimento predatorio che viene qua per comprare il know how e spostarlo, allora io gioco in difesa: non glielo consento e per questo abbiamo rafforzato i poteri di golden power. La stessa strategia a due facce si può articolare sulla politica industriale: andare avanti su industria 4.0, ma anche rafforzare gli strumenti per gestire le crisi e le transizioni industriali che saranno sempre più veloci e profonde”.

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