Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Di Maio, Londra e l'inciucio. Non è materia per retroscenisti, ma per sociologi

Salvatore Merlo

Il capo politico del M5s aveva già detto le stesse parole in Italia e senza scandalo. Il problema, stavolta, è il riferimento alle “larghe intese”

Forse la verità è che Di Maio pensava di essere in uno di quei tendoni del circo televisivo italiano chiamati talk-show, uno di quegli spettacoli mattutini, pomeridiani e serali dove il politico può liberamente manifestare in una forma confusa e con termini maldestramente usati, pensieri lapalissiani e sentimenti incerti, senza curarsi delle conseguenze logiche.

 

E infatti il 18 dicembre il capo politico del M5s aveva già detto queste esatte parole, in Italia, e senza scandalo, senza doversi smentire: “La nostra idea è di presentare la squadra di governo prima delle elezioni, e la sera delle elezioni fare un appello a tutte le forze politiche per metterci insieme sui temi e non sugli scambi di poltrone”. Insomma è evidente che non c’è nessun giallo, nessun mistero, nessuna trama, nessuna svolta intorno alle parole che il povero Luigi Di Maio ha pronunciato a Londra davanti ad alcuni finanzieri della City che, ascoltandolo, hanno ragionevolmente ricavato l’idea che il capo politico del M5s sia disponibile a una grande coalizione. Di Maio infatti deve aver semplicemente ripetuto anche a loro quello che dice da circa tre mesi, ovvero, come ha detto ancora di fronte a una platea di Assolombarda: “La sera del voto faremo un appello ai partiti per chiedere di convergere su dei temi”.

 

Il problema dunque è che in un posto normale, che segue cioè logiche lineari, ovvero evidentemente tra i finanzieri della City, la frase viene interpretata per quello che è. E solo in un luogo di arzigogolii e contorsioni semantiche, di analfabetismo funzionale e intellettuale, di furbizia e di acrobazie grammaticali, insomma solo nell’Italia politica in cui se una cosa non ti piace la chiami “inciucio” mentre se ti piace la chiami “convergenza programmatica su singoli punti”, il riferimento alle “larghe intese” provoca svenimenti e l’esigenza di smentire.

 

“Non ho mai prospettato un governo di larghe intese”, ha detto Di Maio mercoledì sera. E poi ha aggiunto: “Anche perché le larghe intese hanno già ammazzato l’Italia”. E infine la parola magica: “No agli inciuci”, una formula di cui il politico italiano dispone per fronteggiare qualsiasi evenienza, esattamente come il superstizioso ha pronta una varietà di scongiuri per ogni fenomeno iettatorio: gatto nero, cappello sul letto, numero 17…

 

E allora questa storia di Di Maio a Londra non è materia da retroscena giornalistico, ma dovrebbe interessare piuttosto i sociologi e forse anche gli psicologi, indurci a riflettere su quali meccanismi misteriosi e quali impulsi scatenino, come per il cane di Pavlov, la reazione del sistema politico e informativo italiano. In una congiura tra parola e azione, ai danni dell’intendimento. Di Maio dice: “Faremo un appello a tutte le forze politiche per metterci insieme”, e non succede niente. Ma se dice “con Forza Italia e il Pd”, allora le schiene si raddrizzano. Poi dice: “Chiederemo a tutti di convergere sui temi”, e scatta uno sbadiglio. Ma se gli scappa “larghe intese”, allora i palati vibrano. La sostanza è la stessa. Ma vi pare normale?

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.