Sergio Fabbrini

Chi è Sergio Fabbrini, il prof. weberiano che ha ispirato Renzi sull'Europa

Marianna Rizzini

Chi è il direttore della Luiss che il segretario del Pd ha definito “uno dei pensatori più importanti del panorama europeo”

Roma. Il tema per così dire “estero” che irrompe nella campagna elettorale del Pd e Matteo Renzi che, da Milano, dice: “Il futuro sono gli Stati Uniti d’Europa… chiediamo agli altri partiti da che parte stanno”. Ma la torsione comunicativa è anche frutto di “ispirazione”. C’è infatti un professore di Scienze politiche e relazioni internazionali, direttore della Luiss School of Government – già docente a Berkeley e da tempo editorialista del Sole 24 ore – che risponde al nome di Sergio Fabbrini e che da anni, dicono nell’entourage renziano, “è in cima alla lista delle firme che Renzi considera letture imprescindibili”. Tanto che il segretario del Pd ha citato Fabbrini, sempre a Milano, come “uno dei pensatori più importanti del panorama europeo”, prendendo come canovaccio un suo articolo sulla vera “posta in gioco”, in cui si dice che le prossime elezioni sono “comparabili con quelle che si sono tenute nell’aprile del 1948… in queste ultime la posta in gioco fu la collocazione internazionale dell’Italia mentre, nelle prossime elezioni, sarà la sua collocazione europea. Il risultato elettorale del 1948 consentì all’Italia di rimanere nel mondo occidentale. Il risultato elettorale del 2018 deciderà se l’Italia continuerà a fare parte del gruppo di paesi europei impegnati ad avanzare nel processo di integrazione oppure diventerà la propaggine meridionale di quelli impegnati a contrastare quest’ultima”.

 

Scrive Fabbrini che, nel 1948, “diversi leader politici ed esponenti intellettuali non capirono la profondità della sfida da affrontare. La loro preoccupazione era esclusivamente partigiana, legittimare o delegittimare l’uno o l’altro partito” e che anche oggi, “seppure in un contesto diverso, la comprensione della posta in gioco sembra sfuggire a non pochi esponenti politici e (soprattutto) intellettuali. Per costoro, le elezioni del 2018 sono un’occasione per legittimare il Movimento Cinque Stelle o per stabilire rapporti di forza all’interno dell’uno o dell’altro polo. Un evento insomma di pura politica domestica”. In un editoriale più recente, sempre sul Sole, Fabbrini ha individuato il pericolo numero uno: la “frantumazione sovranista”.

 

Ma chi è il professore da cui Renzi prende spesso spunto? Nel 2014, a rottamazione avviata e a Rottamatore insediato a Palazzo Chigi, Fabbrini, intervistato da Vittorio Zincone su Sette, definiva il neopremier uno “esterno all’establishment”, privo di “debiti da pagare”, dotato di “una buona scorta di cinismo postideologico”. Gli consigliava, allora, in veste di Cassandra-prevedi sventure, di costruirsi “un suo anti-establishment”. E oggi, nel 2018, a più di un anno dalla sconfitta di Renzi al referendum del 4 dicembre 2016 e dall’insediamento del governo Gentiloni, il weberiano Fabbrini dice che proprio Max Weber aiuta a leggere il problema della leadership in Italia “in modo meno semplicistico: non si può dire solo ‘buoni o cattivi’. I leader possono e devono imparare dalle sconfitte. Renzi è giovane, penso possa far tesoro dell’esperienza. La rottamazione aveva senso anni fa, non oggi, e un leader non può avere uno schema predefinito. A mio avviso, in questo momento, è un bene che ci sia nel centrosinistra una leadership plurale, e un male che non ci sia nel centrodestra e nel M5s. Un leader, per crescere, ha bisogno, sì, di supporto, ma anche di misurarsi con dei ‘rivali’ interni”. Ma la priorità, ha scritto Fabbrini, resta la scelta di campo in un momento in cui si rischia di “mettere in discussione i criteri fondamentali che hanno orientato il nostro paese almeno dalla fine della Guerra Fredda”.

 

Non si può oggi prescindere, dice al Foglio, dalla presa di coscienza di un cambiamento profondo nei sistemi politici europei: “La frattura non è tanto tra destra e sinistra quanto tra europeisti e sovranisti: i sovranisti, più che mettere in discussione la Ue in quanto tale, vorrebbero trasformarne la sostanza. Già Brexit avrebbe dovuto allertarci, e oggi tanto più la politica deve ripensarsi in modo radicale. Non si tratta di fare scelte sui sacchetti di plastica, ma sulla direzione che vuole prendere l’Italia. Da quello discenderà tutto il resto”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.