Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Davvero il Cav. promette di tornare al posto fisso? Rileggete Biagi e capirete

Annalisa Chirico

La rivoluzione del Jobs Act. Tornare indietro è pura follia

Roma. Il Cav. non l’ha detto, e se l’ha detto non lo pensava. Persino Checco Zalone si è arreso alla brutale verità: il posto fisso non esiste più. Oggi all’impiego stabile e duraturo, magari uno per tutta la vita, non ci crede più neanche lui, l’ex bambino che alla maestra che gli domandava: “Che cosa vuoi fare da grande?” rispondeva tutto d’un fiato: “Io voglio fare il posto fisso”. Spiegarlo ai pifferai delle false promesse, tra redditi esistenziali e uscite dall’euro a giorni alterni, è tempo sprecato. Ma il Cav. l’ha detto per davvero? La notizia si rincorre sugli smartphone: no, non è possibile, avete frainteso. A resuscitare il totem dell’impiego ultragarantito non può essere il presidente Silvio Berlusconi. “Abolisco il Jobs Act perché è stata solo un’iniezione per i contratti provvisori. Su dieci contratti otto sono stati temporanei”. Segue parziale smentita: “Il presidente si è limitato a constatare che il Jobs Act è sostanzialmente fallito perché non ha indotto le imprese a creare occupazione stabile ma quasi esclusivamente lavoro precario”. E noi che pensavamo che un lavoro fosse meglio di nessun lavoro.

 

Nella campagna elettorale 2018 al Cavaliere viene attribuito il fatidico aggettivo, “precario”, lo stesso che la sinistra sindacalizzata ha usato per vent’anni contro ogni tentativo di rendere il mercato del lavoro più moderno, flessibile e competitivo. Il 19 marzo 2002 il giuslavorista Marco Biagi fu raggiunto di fronte al portone, sei colpi di pistola in rapida successione. L’omicidio fu rivendicato dalle Nuove brigate rosse: “Un nucleo armato della nostra Organizzazione ha giustiziato Marco Biagi, consulente del ministro del Lavoro Maroni”. Il premier era Silvio Berlusconi, capo del governo che nel 2003 si intestò una riforma, la legge 30, ispirata al modello nordeuropeo di flexicurity, al Libro bianco e agli studi comparati di un accademico del calibro di Marco Biagi. Contratti a progetto, lavoro intermittente, accessorio, occasionale, i vituperati contratti “precari” s’inserivano nel solco del pacchetto Treu, 1997. L’idea di fondo era che un’accresciuta flessibilità in entrata avrebbe agevolato la creazione di nuovi posti di lavoro, esattamente ciò che avvenne. Quei contratti “precari” avrebbero dato un impiego, e un reddito, a chi non aveva né l’uno né l’altro. Nel 2006, dati Istat, la disoccupazione, in calo costante, scese al 6 per cento mentre gli occupati, inclusa una quota crescente di donne, ammontavano a 23 milioni, più 2 per cento sull’anno precedente.

 

Venendo ai giorni nostri e ai più recenti dati Istat, il Jobs Act, con il superamento dell’articolo 18, ha fatto aumentare le assunzioni, non i licenziamenti: tra il 2014 e il 2017 l’Italia ha recuperato un milione di posti di lavoro. Per circa la metà si tratta di impieghi a tempo determinato, e allora? Meglio un lavoro che nessun lavoro. Biagi non era un uomo del centrodestra, era un tecnico di idee moderate, aveva lavorato con la Cisl e con governi di segno opposto, la sua parola magica era benchmarking: per comprendere le peculiarità del sistema giuridico nazionale occorre guardare altrove. La flexicurity non è spietato precariato al servizio del capitale sporco e cattivo, ma un modo ragionevole per coniugare le esigenze delle imprese in un mondo che cambia con quelle di lavoratori e famiglie. Insieme alla diversificazione contrattuale essa prevede una rete di sicurezza sociale che accompagna il lavoratore, rimasto temporaneamente senza impiego, nella transizione verso una nuova occupazione. Quella portata avanti da Marco Biagi, ancor prima che un’iniziativa legislativa, fu una battaglia delle idee di stampo riformatore che gli costò la vita. Perciò non crederemo mai alla storia del Cav. che dichiara guerra ai contratti a tempo o che annuncia un fantomatico ritorno all’Eden dei lavoratori illicenziabili. In un mondo smart il lavoro diventa smart. Poi, certo, si possono incollare i francobolli sulle email o vietare le automobili alla riscoperta del romantico mestiere del maniscalco, per carità. Si può tutto, anche sognare.

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