Matteo Renzi ospite a "In Mezz'Ora". Sullo sfondo una foto di Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Viva il compromesso, vaccino contro i meschini dell'anti inciucio

Claudio Cerasa

La nuova cultura del compromesso come argine al modello Rousseau. Rileggere Ratzinger per capire la novità dell’Italia

Il modello tedesco è qui, ma forse non nel senso che immaginate. A cento giorni dalla fine della campagna elettorale (cento, sì, li abbiamo contati) c’è un dato politico importante che riguarda una novità della struttura ossea del nostro paese, che per ragioni diverse permette agli osservatori internazionali (e non solo a loro) di essere ottimisti sul futuro dell’Italia. In questo contesto, i dati economici (che continuano a essere positivi: l’Istat ieri ha confermato che nel 2017 le esportazioni su base annua sono in aumento del 11,2 per cento) c’entrano fino a un certo punto. C’entra, semmai, un nuovo e formidabile paradigma culturale che costituisce una delle eredità più preziose di cui può beneficiare il nostro paese dopo sei anni esatti e ininterrotti di grande coalizione: la cultura del compromesso.

  

Gli anni di compromesso tra centrodestra e centrosinistra (72 mesi consecutivi di grande coalizione non sono pochi) hanno ovviamente contribuito a far maturare un fronte politico che fa del no alla grande coalizione il suo principale programma di governo (unico in alcuni casi). Ma il dato sul quale vale la pena riflettere è che a differenza di qualche anno fa i principali partiti che si candidano a guidare il paese nella prossima legislatura (Pd e Forza Italia) sanno che all’interno dei rispettivi campi da gioco il fronte di chi considera un’intesa trasversale più un compromesso che un inciucio non è più in netta minoranza. E l’idea che tutto sommato in Italia esista un clima propizio alle alleanze intelligenti (alla vittoria del Movimento 5 stelle non crede nemmeno Dibba) è un’idea che tende a rassicurare chi vuole ancora scommettere sul futuro del nostro paese. In Italia, le radici della cultura del compromesso vanno ricercate in un arco temporale che va dal novembre 2011 (inizio governo Monti) al novembre 2017 (battute finali del governo Gentiloni).

 

Ma per capire in che senso non accettare il principio del compromesso significa uscire fuori dal perimetro della razionalità politica (anche Salvini, che ieri ha proposto a Berlusconi di firmare un patto anti inciucio, sa perfettamente che gli accordi con gli avversari non sono sempre inciuci, vedi la nuova legge elettorale) occorre fare un passo indietro nel tempo e arrivare a un altro novembre di qualche anno fa: 26 novembre 1981, Germania, chiesa di San Winfried a Bonn, liturgia per i deputati cattolici del Parlamento tedesco. A parlare non è Angela Merkel ma è un altro modello tedesco: il cardinale Joseph Ratzinger.          

In quell’occasione, Ratzinger ricorda che “il primo servizio che la fede fa alla politica è la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo” e nell’andare a mettere insieme alcune ragioni per prendere a ceffoni la fede populista (“Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale”) arriva a spiegare perché non c’è nulla di più saggio e illuminante (e anche cristiano) di una cultura del compromesso: “Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica. Limitarsi al possibile sembra una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo”.

       

All’epoca, come ricorderà anni dopo il cardinale Angelo Scola, Ratzinger arrivò a queste conclusioni, all’idea cioè che la politica non è immorale solo se i politici sono disposti a sacrificare gli interessi propri e della propria parte in favore del bene di tutti, a seguito di alcune riflessioni fatte sul pensiero di un grande filosofo del 1700. Un filosofo ostile a ogni forma di compromesso, che sognava di ridurre i corpi intermedi della politica allo stato di prigionieri immobili della volontà generale del popolo. Secoli dopo quel filosofo sarebbe diventato il simbolo di un partito politico nato per fare l’opposto di quanto suggerito da Ratzinger: resistere alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Il filosofo si chiamava Jean-Jacques Rousseau. Il partito avete capito qual è. Evviva il compromesso. Evviva il modello tedesco.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.