Fabio Fazio (foto LaPresse)

Sulla Rai ha ragione Fabio Fazio

Redazione

“Il decreto sulle società a partecipazione pubblica è infelice”, “se la Rai è un’impresa, non può stabilire limiti e tetti generali”. Parla il prof. Sabino Cassese

Professor Cassese, ha ragione Fazio nel sostenere che il tetto dei 240 mila euro lordi annui non dovrebbe applicarsi alla Rai? O ha ragione chi quel tetto vuole imporlo alla Rai?

Il conduttore Fabio Fazio ha sostenuto che, se la Rai è un’impresa, se essa è in concorrenza con altre imprese televisive (non mi soffermo sul duopolio), deve seguire le regole del mercato: non può stabilire limiti e tetti generali, rapportati a quelli dell’amministrazione statale. Altrimenti, esce dal mercato.

 

Bene, precisata la sua posizione, lei come la pensa?

Penso che abbia ragione. Mi segua. Lo Stato svolge, accanto a funzioni pubbliche “regali” – come dicono i francesi –, tipo difesa, ordine pubblico, sanità, scuola, pensioni, anche funzioni economiche svolte in forma di impresa. Per svolgere queste funzioni, si organizza nello stesso modo dei privati, ricorre allo strumento societario, regolato dal codice civile.

“Se si calano sulla società vincoli pubblicistici, che portano nella società un altro e diverso ordine di regole – prosegue Cassese – si negano le ragioni stesse che avevano richiesto di costituire una separata società, retta dal diritto privato”.

 

Bel ragionamento, di cartesiana chiarezza. Ma il mondo è confuso, le istituzioni ambigue, la realtà non segue canoni così precisi. Ad esempio, il recente “testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” va in direzione diversa.

Ha messo il dito sulla piaga. Infatti, quasi tutto è abusivo in quel decreto infelice, a cominciare dal titolo: testo unico. Basta leggere la quantità di rinvii che esso contiene ad altre leggi per rendersi conto che non è un testo “unico”. Chi l’ha scritto aveva la preoccupazione di stare nei termini della delega, che prevedeva semplificazioni. Ma non l’ha rispettata se non a parole.

 

Lasciamo il titolo e vediamo quel che dice la norma.

Fa in grande l’errore che Fazio denuncia. Provo a spiegarmi. Come ho detto prima, lo Stato, le regioni, i comuni, ricorrono a società private per svolgere attività economiche in forma imprenditoriale. Di tale ricorso si è abusato. Pare che oggi siamo a quota 8 mila società. Lo stesso era accaduto in periodo fascista, tanto che, caduto il fascismo, il governo incaricò Ugo La Malfa di fare una indagine accurata su quel mondo variegato, molte società vennero liquidate, altre razionalizzate. Ora, invece di valutare una per una le società, si è deciso di far calare su di esse una pesante cortina di vincoli di ogni ordine, legando le mani sia agli azionisti (le pubbliche amministrazioni partecipanti), sia agli amministratori delle società.

 

Prima di parlarci di questi vincoli, ci spieghi perché li ritiene disfunzionali.

Delle due l’una: o vi sono società che non dovrebbero esserci, che sono inutili, che servono solo a dare posti di amministratori, e vanno chiuse, perché porre ad esse vincoli non basta; oppure vi sono società che sono utili, e non vanno circondate da limiti, vincoli, tetti, che impediscono l’azione degli amministratori e creano solo lavoro per giuristi, avvocati e giudici.

 

Ma lei è un giurista e dovrebbe esser contento.

Tutt’altro. Il lavoro dei giuristi è utile se non serve solo a curare storture, quelle create dal decreto delegato. Pensi a quanti problemi si porranno in futuro, relativi alle responsabilità privatistiche o pubblicistiche dei gestori di società anfibie come quelle che vengono fuori dal decreto, che sono sia carne sia pesce. Si applicano le regole della carne o quelle del pesce?

 

Passiamo ora ai vincoli.

In primo luogo, il decreto delegato fa una tripartizione: società a partecipazione pubblica, società a controllo pubblico, società a partecipazione pubblica quotate. Sono tre regimi diversi, meno pesante quello delle società quotate. Ci sarà una corsa a quotarsi? Poi, mette in un canto le società per azioni di diritto singolare, per così dire le eccezioni, nonché le società dette “in house”. Già districarsi tra i diversi tipi sarà difficile.

 

Diceva che vi sono vincoli sull’azionista.

Sì, con la disciplina legislativa dell’acquisto e della gestione della partecipazione, frapponendo ostacoli alla partecipazione, ad esempio delimitando le finalità per le quali si può acquisire una partecipazione. Limite utile, ma stabilito in forma ambigua, con eccezioni facilmente aggirabili.

 

E quelli sulla società?

Per società utili o necessarie crea impedimenti che ne diminuiscono l’utilità, per quelle inutili non crea vincoli o ostacoli sufficienti per impedire i danni che possono fare.

 

Fa qualche esempio?

Quello di doppiare procedure di diritto privato con procedure di diritto pubblico, oppure i vincoli sulla organizzazione e sulla gestione delle società.
Obbligo di costituire uffici di controllo interno, ponendo il problema dei rapporti con i collegi sindacali. Tetto massimo delle retribuzioni a 240 mila annui lordi, sollevando lo stesso problema posto per la Rai. Tutto condito anche con buone intenzioni, come la “razionalizzazione periodica delle partecipazioni pubbliche”.

 

In conclusione?

C’è un problema, quello dell’eccessivo ricorso a società per azioni. Invece di risolverlo esaminando la questione in modo analitico, esaminando una per una le società, valutandone l’utilità e la funzione, si conta come al solito nella funzione salvifica di una nuova legge, che raddrizza tutte le gambe, sia quelle storte, sia quelle dritte. Naturalmente, tutto nel nome della giustizia intesa come parificazione (ricorda la “giungla retributiva”?), della trasparenza, della responsabilità sociale, insomma di tutte le medicine in voga. La soluzione è essa stessa un problema, che richiederà nuove soluzioni.

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