Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Sull'incapacità della nostra classe dirigente di reagire alla minaccia populista

Claudio Cerasa

Nell’epoca dello sfascismo anti sistema, non prendere parte non significa essere neutrali. Significa non capire la minaccia di chi vuole sospendere la democrazia. Perché la Francia insegna che non è più tempo di essere terzisti

La copertina del Time della scorsa settimana (da conservare) è dedicata a Emmanuel Macron, e alla sua micidiale cavalcata alla conquista dell’Eliseo. Ma accanto alle immagini trionfali della campagna del nuovo presidente francese campeggia un avvertimento che vale la pena sintetizzare. Il senso è questo: cari amici filo europeisti, bene, bravi, festeggiate pure, esultate pure, ma attenti a non illudervi troppo, perché lo scontro osservato negli ultimi mesi in Francia tra populisti e anti populisti non è finito, e in realtà è appena cominciato. Nel riavvolgere il nastro della campagna di Emmanuel Macron, il Time nota, come molti altri giornali, che nella vittoria dell’ex banchiere di Rothschild un ruolo importante lo ha avuto una particolare creatura in via d’estinzione chiamata “classe dirigente”, che un istante dopo la chiusura del primo turno ha scelto senza tentennamenti di schierarsi contro Marine Le Pen, prima ancora che a favore di Emmanuel Macron. Definire cosa sia una classe dirigente non è mai facile, si sa, ma non c’è dubbio che l’insieme pressoché generale dell’establishment francese (imprenditoria, borghesia, giornali, intellettuali) ha capito che nell’epoca dei populismi non schierarsi non significa essere neutrali. Significa prendere una posizione precisa. Significa non considerare le forze anti sistema un pericolo per la democrazia. 

 

 

Significa accettare un principio pericoloso che suona più o meno così: uno vale uno, sempre, anche quando quell’uno minaccia di distruggere l’Europa, di annientare l’euro, di chiudere le frontiere e di giocare con la xenofobia e l’antisemitismo. La storia della Francia – che poi in questo caso è speculare con la storia degli Stati Uniti d’America, anche se il risultato, come è noto, è stato diverso – ci dice insomma che nell’epoca delle grandi divisioni chi non prende una parte in realtà ha già preso una parte e l’atteggiamento avuto dalla classe dirigente francese costringe inevitabilmente a porci una domanda cruciale, che riguarda il futuro del nostro paese: esiste davvero una classe dirigente che di fronte al populismo all’amatriciana è disposta a prendere parte, a diventare “decidente”, e a spendersi in prima persona per evitare che una forza politica che sogna, tra le altre cose, di distruggere la democrazia rappresentativa attraverso la truffa della democrazia diretta e l’orrore della gogna mediatica possa davvero avvicinarsi al potere?

 

Una classe dirigente schierata contro il populismo becero non è un ingrediente sufficiente per evitare la vittoria del populismo ma è certamente un ingrediente necessario per misurare che capacità di reazione ha un paese di fronte a chi sogna di far saltare i meccanismi di una sana e robusta democrazia. A voler osservare con attenzione le dinamiche del sistema italiano, poi, si può dire senza paura di essere smentiti che nel nostro paese non esiste una vera reazione di massa contro il populismo grillino ma che anzi, al contrario, un pezzo importante di establishment ha iniziato a osservare da tempo le forze anti sistema del nostro paese portando avanti l’idea di contribuire a normalizzare ciò che invece non può in nessun modo essere normalizzato: lo sfascio. E facendo questo, quel pezzo di classe dirigente si è rifiutata in maniera plastica di distribuire vaccini utili a sconfiggere non solo il virus dell’anti politica ma anche il virus dell’anti competenza.

 

In un bellissimo libro pubblicato pochi mesi fa in America, anticipato a febbraio da IL Magazine e dalla Lettura, lo scrittore Tom Nichols ha spiegato con parole definitive qual è il vero punto da tenere in considerazione su questo tema. E lo ha fatto mostrando come, in un’epoca particolare come quella in cui viviamo, populismo e post verità si saldano in unico grande principio così sintetizzabile: la fine della competenza, l’attacco generalizzato non solo contro le élite ma contro gli esperti. Mai sentito dire che uno vale uno? Ecco. Scrive Nichols: “Il punto è che se non ammettiamo i limiti delle nostre conoscenze e non ci fidiamo delle competenze degli altri, la cosa non può funzionare. Talvolta abbiamo delle resistenze ad accettarlo perché questo indebolisce il nostro senso di indipendenza e di autonomia. Vogliamo credere di essere capaci di prendere ogni tipo di decisione e ci infastidiamo con chi ci corregge o ci dice che ci sbagliamo o ci dà istruzioni su qualcosa che non capiamo. Questa reazione umana, naturale nei rapporti tra individui, è pericolosa quando diventa una caratteristica diffusa dell’intera società”.

 

Le parole di Nichols, come è evidente, ci dicono che in fondo la nostra classe dirigente, sui temi della politica e della democrazia ma se volete anche dell’economia, oggi è di fronte a una scelta simile a quella che devono compiere i medici (e i genitori) di fronte all’attacco portato avanti dai populisti sulla questione dei vaccini: reagire oppure no? Da un certo punto di vista, infatti, l’attacco portato avanti alla nostra democrazia da parte delle forze anti sistema è simile all’attacco portato avanti contro la scienza dalle forze No Vax. Il tic anti scientifico, come già scritto più volte da questo giornale, si sposa perfettamente con la volontà dei partiti anti sistema di voler dare pari dignità a tutti i cittadini e imporre così una nuova forma di tirannia (e di truffa) culturale: l’uno vale uno. Dove l’uno vale uno, di solito, significa uccidere le competenze, far fuori gli esperti, rinunciare inevitabilmente alla competenza. In fondo è tutto un unico calderone in cui vivono insieme concetti solo apparentemente diversi: le élite non esistono, gli esperti ci stanno imbrogliando, la competenza non conta, la classe dirigente è corrotta, un blog vale l’Oms, il direttore della Nasa vale come un astrologo e in definitiva ciò che viene prodotto dalla Rete, a prescindere se sia vero o se sia solo virale, ha una sua veridicità maggiore rispetto a ciò che viene prodotto su un altro mezzo di informazione. Uno vale uno, no? Nell’ambito di questo nuovo e terribile populismo chi si spaccia per essere il portavoce del popolo – da Trump alla Le Pen passando per Grillo – deve distruggere, in nome dell’eliminazione totale dei corpi intermedi, la credibilità di tutte le classi dirigenti (la gogna viene accettata anche per questo) e non può limitarsi a cambiare solo i volti che governano il sistema ma deve arrivare a qualcosa di più: cambiare il sistema, rottamando la democrazia rappresentativa.

 

Durante la campagna elettorale francese i maggiori quotidiani nazionali si sono spesi contro il populismo lepenista e lo stesso è avvenuto anche in America durante la campagna di Trump, dove persino il New York Times ha ammesso che in quest’epoca bisogna smetterla di dire cazzate e bisogna smetterla di parlare di giornalismo obiettivo: “Se sei un giornalista – ha scritto il 7 agosto Jim Rutenberg sul Nyt – e ritieni che Donald J. Trump sia un demagogo che gioca con i peggiori istinti razzisti e nazionalisti della nazione e ritieni che potrebbe essere un uomo pericoloso qualora dovesse avere in mano i codici di controllo del nucleare degli Stati Uniti, come diavolo fai a nasconderlo?”. Da un certo punto di vista, la stessa domanda oggi potrebbe essere rivolta a ciò che resta della classe dirigente italiana: se fai parte del ceto produttivo, dell’establishment, e ritieni che i nuovi campioni del populismo siano demagoghi pericolosi che giocano con i peggiori istinti razzisti e nazionalisti della nazione e ritieni che potrebbero essere uomini pericolosi qualora dovessero avere in mano i codici di controllo di un paese, come diavolo fai a nasconderlo? E, detto in modo più sintetico, come diavolo fai a essere neutrale? I grandi editori e i grandi direttori e i grandi imprenditori italiani (Carlo De Benedetti lo ha capito, Urbano Cairo forse ci sta finalmente riflettendo) dovrebbero rispondere a questa domanda e rendersi conto che non contribuire con il coraggio della verità a smascherare le menzogne degli apostoli della post verità non significa essere neutrali, significa già aver scelto da che parte stare. Non è più tempo di essere terzisti. È tempo di schierarsi.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.