Le elezioni francesi mostrano i limiti della Lega lepenista di Salvini

Carlo Lottieri

Nazionalismo e centralismo spingono il Carroccio verso il M5s, ma lontano dalla propria tradizione liberale e autonomista

L’esito del ballottaggio francese era largamente prevedibile. In fondo, gli sforzi compiuti dal Front National per liberarsi della propria pesante eredità non sono stati sufficienti a smuovere un elettorato che ha temuto, più di ogni altra cosa, di dover fare i conti con le disastrose conseguenze di un’eventuale uscita dall’euro.

 

Da noi, il risultato dovrebbe farci capire quanto sia difficile trovare un’alternativa alla socialdemocrazia, da un lato, e al dirigismo tecnocratico, dall’altro, se ci si affida a una sorta di socialismo di destra, protezionista e illiberale. In particolare, dovrebbe far riflettere la dirigenza della Lega, che se un tempo era una formazione favorevole all’autogoverno delle comunità locali, ora sposa logiche sovraniste e centraliste. L’alleanza di Matteo Salvini con le due signore del post-fascismo francese e italiano (Marine Le Pen e Giorgia Meloni) incarna proprio la nuova identità di un movimento che, un tempo, era a vocazione secessionista e anti-italiana.

 

Il nazionalismo non è in grado di risolvere alcun problema. E non è neppure in grado di consentire a chi se ne fa interprete di vincere la competizione elettorale. E’ ragionevole pensare che Salvini sia consapevole di questo. D’altra parte, la sua strategia non sembra basarsi su un centro-destra egemonizzato dalla Lega e capace di sconfiggere Renzi e Grillo, ma semmai sulla conquista di quei seggi che – entro un quadro politico che sarà certamente assai frammentato – possono attribuirgli un ruolo. Sono ormai in molti a ritenere che prima o poi si potrebbe assistere a un accordo (probabilmente post-elettorale) tra M5S e Lega. Ma tutto questo a cosa è finalizzato?

 

Sembra ormai che l’orizzonte della Lega odierna sia tutto romano. Bene o male la Lega di Bossi sembrava puntare a ottenere (o così faceva credere) spazi di autonomia per le regioni settentrionali. E’ vero, che nel corso di trent’anni il bilancio è risultato disastroso: mai una sola volta il sostengo dei voti leghisti è stato condizionato a una riduzione del residuo fiscale o alla celebrazione di un referendum sull’indipendenza di Veneto o Lombardia. Nonostante ciò, la propaganda leghista si basava sulla difesa degli interessi e dei diritti delle aree settentrionali. Ora tutto è cambiato. Salvini ha spodestato Bossi, ma al contempo ha ereditato un partito ultraverticista. Non solo: dalla Lega precedente il nuovo leader ha salvato le battaglie contro l’immigrazione e quelle sull’ordine pubblico. In tal modo, focalizzandosi su questi temi, ha ha trasformato il più anti-nazionalista dei partiti nell’alfiere di un nuovo nazionalismo.

 

Nei giorni scorsi le dichiarazioni di Bossi a favore di Macron ci hanno detto questo. Hanno mostrato un leader accantonato e livoroso, che ha riesumato in maniera strumentale il vecchio armamentario antifascista per togliersi dalle scarpe qualche sassolino. Ma il Senatur ha potuto parlare così perché, effettivamente, l’operazione di Salvini ha qualcosa di incredibile: un po’ come se un erede di Pannella facesse dei radicali un partito clericale.

 

L’operazione può forse essere pagante, nei piani di un Salvini che punta ad avere in mano carte pesanti nella partita volta a controllare Montecitorio. Questa nuova Lega di stampo lepenista appare però difficilmente integrabile in un ipotetico rinato centrodestra che non voglia perdere i residui tratti liberali. Ed essa appare ancor meno interessante per quanti, soprattutto in Veneto ma non solo, continuano a credere che alcune parole d’ordine dell’indipendentismo siano più attuali oggi di quanto non lo fossero trent’anni fa.

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