Marika Cassimatis (foto LaPresse)

La patacca elettorale di Beppe Grillo esplode a Genova

Salvatore Merlo

Tra politica e commedia il tribunale reintegra la candidata Cassimatis, ma il blog la risospende. Il pasticcio giuridico si estende a Padova. In arrivo ricorsi da tutt’Italia

Roma. C’è il candidato che ha vinto le primarie a sindaco, ma che non è riconosciuto da quelli che dovrebbero candidarlo alle elezioni, e c’è il candidato riconosciuto da quelli che dovrebbero candidarlo alle elezioni (che però forse non si può candidare). Così adesso che il tribunale di Genova ha stabilito che Marika Cassimatis ha ragione e che insomma Beppe Grillo (“fidatevi di me”) non poteva cancellare il risultato delle comunarie a cinque stelle, non poteva insomma utilizzare la democrazia come gli Achei utilizzavano il cavallo di Troia, adesso che la Cassimatis è stata sospesa dal Movimento, raggiunto dunque il climax della confusione e della pantomima, tutta questa storia politica e giudiziaria sembra la trama di una commedia all’italiana, la parodia di una vicenda elettorale, un film di Antonio Albanese, di Totò o di Checco Zalone. E infatti tutti sanno che in democrazia il peggio non è l’autoritarismo, e nemmeno il centralismo, che può essere democratico ma più spesso in Italia è carismatico. Il peggio è semmai l’imbroglio che trasforma la competizione elettorale in una patacca e in una farsa.

 

“Un candidato c’è ed è Marika Cassimatis”, dice Lorenzo Borrè, l’avvocato della professoressa di Geografia che ha vinto tra gli iscritti del M5s, che è stata esclusa dalla candidatura con decreto imperiale del Blog, salvo essere reintegrata dal giudice per poi finire “sospesa”, cioè epurata, sgomberata da un partito che evidentemente usa la democrazia diretta come fiocco sgargiante di una confezione banalmente padronale. “Il Movimento, se non la candidasse, dovrebbe boicottare una decisione del giudice”, spiega allora l’avvocato Borrè, che prima ancora di essere un tecnico del diritto è diventato un modello antropologico, un ex militante grillino romano che difende i cinque stelle dissidenti nei tribunali di mezza Italia, uno che in questo modo si diverte a destreggiarsi fra i tranelli dell’oscurità, uno che sa riconoscere i pataccari a cinque stelle solo sbirciandone l’ombra. Perché in questa vicenda dei doppi candidati genovesi, dei ricorsi e delle sospensioni, della trasparenza proclamata e violata, c’è tutto il prodigio e il pasticcio dell’Italia taroccatrice di sempre, quella della commedia all’italiana, e di Totò truffa.

 

E si riconosce infatti il ticchettio dello spacciatore di patacche anche nel silenzio di Grillo, che ieri ha taciuto fino a sera, rinchiuso con i suoi avvocati in un buco genovese, degradando così definitivamente la politica a materia da azzeccagarbugli, pencolando per mezza giornata tra le varie cervellotiche ipotesi difensive che gli venivano prospettate, tutto il campionario da specialisti del cavillo, da acrobati dell’opaco: il tribunale ha sì reintegrato la candidatura di Cassimatis – è stato spiegato a Grillo – ma nel “MoVimento” con la V maiuscola, non nel “Movimento” con la v minuscola… E se arrivato a questo punto il lettore ha l’impressione di non averci capito nulla, non si preoccupi, è ovvio che una persona normale si sia persa. Il fatto è che i cinque stelle sono davvero un cosmo le cui regole sono sempre incerte, perché contraddittorie, il cui stesso fondamento giuridico è un garbuglio di sigle e associazioni le cui responsabilità anche di fronte alla legge sono un moto ondoso, un terremoto continuo che ha bisogno della trivialità e della retorica di Grillo per tenersi insieme. E allora c’è un’associazione “MoVimento”, ma c’è anche un’associazione “Movimento”, che è diversa da quella che ha buttato fuori Cassimatis, e che è stata registrata da Grillo e da suo nipote Enrico nel 2012. Il M5s è come una matrioska, una patacca pregna di patacche. Si capisce dunque che siamo ben oltre la sceneggiatura di un film comico e surreale in cui si afferma la tenace convinzione che l’imbroglio sia il nostro connotato strutturale, e persino antropologico d’italiani. In questa sceneggiatura non c’è infatti soltanto la democrazia “sofisticata”, cioè sottoposta ad alterazione chimica, sempre subordinata all’ultima istanza dell’interpretazione del capo, ma c’è la democrazia spaesata.

 

E questa storia della “v” minuscola e della “V” maiuscola, che un po’ fa ridere ma invece andrebbe presa terribilmente sul serio, adesso è l’imbroglio che collude con la norma, non vìola in segreto la legge, ma la raggira alla luce del sole: il simbolo appartiene al Movimento con la v minuscola. E dunque Grillo, sostengono i suoi consigliori legali, può disporne a prescindere dalle decisioni del tribunale, e persino a prescindere dalle votazioni degli iscritti, dei militanti, di quelle centinaia di persone che ci credono, che partecipano, si esprimono e rivelano un’antica regola della psicologia patologica: tra truffati e truffatori c’è sempre una strana sintonia, d’altra parte Totò riusciva a vendere la fontana di Trevi perché la offriva alle persone giuste, e si sa che furbizia e stupidità si ingravidano a vicenda. Ma adesso Grillo rischia di diventare il tappetaro che vive di merce contraffatta, e che muore di merce contraffatta. Il suo guaio è infatti quello di essere a capo sia dell’una sia dell’altra associazione, sia di quella con la “V” maiuscola sia di quella con la “v” minuscola, e insomma, dice l’avvocato Borrè, con la sua aria di sgamatore professionale, e con la perfidia dell’ex: “C’è un conflitto d’interessi”. E allora si può procedere con un’accusa civile potenzialmente capace di scardinare tutto il meccanismo pasticciato e padronale con il quale finora è stato gestito questo prodigioso simbolo delle cinque stelle, un logo capace di fare la differenza tra un disoccupato frustrato che abbaia sul web e un parlamentare che va in televisione e guadagna più di cinquemila euro al mese, tra una lista residuale di urlatori di provincia e un partito che governa una città importante come Genova. Saltasse questo potere, che per adesso è tutto nelle mani di Grillo, finirebbe un’epoca. Forse. Così adesso il telefono dell’avvocato Borrè non smette mai di squillare. Si è fatto un nome. I grillini, ex, neo e post sono bellicosi anche da espulsi. Dunque i ricorsi e le cause civili – adesso ce n’è una anche a Padova – aumentano, e mettono in discussione i metodi di selezione interna. Rimane sullo sfondo la sconfitta e la miseria di una politica che non viene respinta dalle urne e dal linguaggio della grazia civile, come sarebbe normale e auspicabile, ma che viene sanzionata per vizio di forma, in un’aula di giustizia.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.