Michele Salvati

Le primarie che tutti volevano ma nessuno oggi farebbe più

Marianna Rizzini

Erano il sogno americano e sono diventate scomode, “ma non ne può fare a meno chi viene dall’Ulivo”, dice al Foglio Salvati

Roma. Le volevano tutti, a sinistra, le primarie, strano oggetto volante sconosciuto, proveniente dall’America clintoniana. Le sognavano, nello scombiccherato mondo post Tangentopoli, come possibile bacchetta magica anti-correnti e anti-imbroglio, e come autostrada per un futuro di democratiche alternanze e liquide (nel senso del partito liquido) certezze. E invece, tempo dieci anni, le primarie sono diventate non soltanto scomode, ma anche simbolo di vizi, errori ed orrori. Tanto che non le vuole più nessuno: quelli che le copiavano (a destra), ora più che mai nicchiano, pensando tra sé e sé “ma guarda quanti guai procurano al Pd”.

 

E quelli che le avevano rivisitate in chiave internettiana dal basso (vedi le “parlamentarie” e le “quirinarie” a cinque stelle, regno del clic di chiunque per chiunque), ora le guardano con riluttanza: chi ce lo fa fare?, pensano nelle retrovie del M5s, dove non si può certo rinunciare al passaggio via web, pena l’insurrezione della base, ma dove tanti aspiranti candidati, magari da anni attivisti sul territorio, eviterebbero volentieri l’ordalia in rete (dove comunque tendono a vincere quelli più vicini, nella realtà, a chi riveste già un ruolo di potere – altro che “uno vale uno”). Ma è nel Pd fresco di scissione (dei Dp) che si consuma sotterraneo il vero dramma: le primarie, di fatto, rischiano di tramutarsi in impiccio. Se le fai non sai mai che cosa può succedere: e già a Napoli ci si era ritrovati, qualche anno fa, con i misteriosi “cinesi” che votavano in massa, ma ora è anche peggio: si temono presunte compravendite di tessere e infiltrazioni, anche se già smentite o ridimensionate (il presidente pd Matteo Orfini, intervistato dal Corriere, ha infatti parlato di casi che “ci erano già stati riferiti: la macchina dei controlli del Pd aveva già funzionato, a Napoli e in altre città sono stati bloccati tesseramenti anomali”).

 

E all’ex premier Matteo Renzi, da poco dimessosi dall’incarico di segretario del Pd, è toccato far capire che né i casi giudiziari (Consip) né il ribollire di sospetti sulle iscrizioni faranno cambiare le date: “Il congresso, con le primarie del 30 aprile, sarà una grande occasione per decidere insieme quale Italia vogliamo in Europa e come il Pd dovrà essere motore del cambiamento. Nessun alibi per rinviare la discussione…”. Intanto però, dall’interno del Pd, e precisamente dall’area Franceschini, era trapelata l’impressione di una certa titubanza, e sulla Stampa di ieri si narrava di conciliaboli determinati a evitare la lotta “intestina” e “autolesionistica”. Ma poi il ministro aveva smentito (“non chiedo il rinvio delle primarie”). Eppure il problema resta: le primarie (a parole) tutti le vogliono, ma potendo nessuno le piglierebbe.

 

Farne a meno si può? Dice il politologo Michele Salvati, “padre” del Pd: “Credo che un partito che trae la sua legittimazione dalla lunga storia dell’Ulivo non possa fare a meno di primarie e che le primarie possano servire ancora nei posti dove c’è sufficiente onestà e radicamento sociale per evitare la concentrazione soltanto agli iscritti, che spesso sono un piccolo gruppo. E spesso un piccolo gruppo di iscritti è legato ai dirigenti del partito, mentre le primarie consentono di allargare lo spettro”. In effetti le primarie avevano inizialmente allettato le moltitudini stanche dei partiti “tradizionali”, dieci anni fa, proprio in nome e per via di quell’apertura ai non-iscritti, visti come forza pura e vera linfa democratica. Non si pensava ancora al rischio “truppe cammellate e pilotate” né si temevano troppo le candidature corsare o i ribaltamenti di pronostici (anche se c’era già stato un caso Vendola da “scacco matto” in Puglia). E, ancora nel 2012, ci si compiaceva di potersi candidare all’americana, con “X Factor” dei candidati su SkyTg24. Vai a pensare che ci si si sarebbe ritrovati a rimpiangere i sottoscala da Balena Bianca, con sgambetti preparati non nell’urna ma nell’ombra. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.