Matteo Renzi (foto LaPresse)

La buona scissione

Giuliano Ferrara

Sinistra riformista e trasversale, sinistra tradizionale stile vecchia guardia, due ragioni, due cuori e due partiti. Per affrontare i giullari del trumpismo alla milanese e alla genovese separarsi è un bene. Vale anche per Berlusconi

Dovessi scrivere una letterina a Renzi, questo sarebbe il testo. Dunque, la scissione. Dario Franceschini dice che sarebbe un dolore cocente per i militanti e gli elettori. Lo scrivono anche i notisti politici di Corriere e Repubblica e altri commentatori. Ora, può essere che sia così, ma il dolore privato collettivizzato è comprensibile nel tifo calcistico, una squadra è per definizione una squadra e una soltanto, meno nelle passioni e negli orientamenti politici, anche quelli della folla elettorale e attivistica. Siamo sul sofisticato, è questo un ragionamento incomprensibile, non tiene conto delle ragioni del cuore che la ragione non conosce, come diceva Pascal? Può essere, per carità, ma non sembra senza una base solida. Ragione e carattere, se si escluda il vizio del sentimentalismo, suggeriscono che la scissione del Pd e dunque la costituzione di un’altra e diversa organizzazione di sinistra è non solo un fatto a lungo rinviato per amore di bottega, forse malinteso, ma anche una laica opportunità, il normale ritrovarsi di due popoli e di due leadership in ciò che effettivamente sono. Sebbene spesso si smarrisca nei meandri dell’antipolitica strumentale, con atteggiamenti vanamente demagogici, e cerchi di recuperare a sinistra dicendo che il suo riformismo è il meglio della tradizione gauchista, Renzi si è presentato e ha vinto le sue primarie, con le Leopolde e tutto il resto, su una posizione di liberalismo economico e politico. Certo, ha provato a badare alla constituency dei lavoratori con gli 80 euro, e può legittimamente rivendicare come antidoto alla precarizzazione estrema del lavoro molte delle misure varate nei due anni e mezzo del suo governo, con i conseguenti risultati che solo i veri e finti apocalittici arrivano a negare.

 

Ma l’affermazione che “il liberismo è di sinistra”, dal titolo di un pamphlet fortunato di Giavazzi e Alesina, è un felice paradosso culturale o ideologico, utile per capire le cose ma irrilevante per la dislocazione degli eserciti nella realtà politica e sociale. Con l’orgia dei protezionismi antimercato aperto e dei demagogismi socializzanti, nell’epoca di Trump e della Le Pen, si potrebbe anche dire, ma è solo un altro paradosso che spiega senza convincere, che il socialismo oggi è la destra cosiddetta populista. Invece sappiamo come è andata dove questo modello post thatcheriano e post reaganiano è nato, nella Gran Bretagna del “new labour” e nell’America dei Clinton: alla fine Sanders ha contribuito alla vittoria di Trump almeno quanto il Kgb e l’Fbi, con tutti i suoi sogni e utopismi da baraccone, e Corbyn sta portando le briciole che restano del Labour post Blair all’ammasso dei brexiteers, nel calderone del destrismo socializzante, sarebbe meglio dire corporativo e antiriformista.

 

Per una certa sinistra conservatrice “riformismo è una parola malata”, se lo lasciò sfuggire Cofferati in un suo momento della verità. Tra primarie, vocazione maggioritaria e rottamazione, da Veltroni a Renzi, c’è stato un percorso di rottura vera con la tradizione comunista e cattolico-democratica, e uno dei suoi tratti è stato l’emulazione con il berlusconismo al posto della contrapposizione isterica. Tutte e due le parabole, Uolter e Matteo, malgrado le diversità del caso e delle personalità, sono state a un certo punto battute (Veltroni definitivamente) da una “accozzaglia”, le correnti interne per il primo e l’alleanza referendaria in campo aperto con la peggio feccia della destra antipolitica per il secondo. Insomma, Renzi è poi quel tizio che ha frequentato con passione l’imprenditoria grande e piccola, ma in un’occasione topica disse di non avere più di un’ora per discutere con un sindacato che giudicava arretrato e avversario del riformismo in nome della tutela di posizioni corporative consolidate. Magari fu un errore di baldanza, un difetto di comportamento, una pericolosa mancanza di ipocrisia, ma sono cose significative.

 

Gli scissionisti hanno dunque le loro ragioni, anche se molti di loro (Bersani e D’Alema per esempio) sono dei riformisti refoulé, gente che sembrava volerci provare a cui è mancata la sufficiente determinazione politica, gente che si è fermata al di qua della rottura di un filo rosso che, per dirla con Cerasa, incatenava la sinistra alle sue vecchie glorie ideologiche. La storia dell’effetto generazionale, dei rancori personali, della logica di gruppo tradita dall’uomo solo al comando, sì, non la si può negare, ma in sostanza viene dopo. Bersani l’ha detto chiaro all’ultima direzione del Pd, e non erano “lizzi e frazzi”, come scandirebbe lui: caro Matteo, è inutile che tu ci chiami alla lotta contro il trumpismo, le ragioni o sragioni dei populisti sono egemoniche anche nei bar sport dei nostri circoli, stiamo per essere travolti, dobbiamo recuperare inseguendo quello stato d’animo, altro che riformismo modernizzatore. Insomma, ci sono due visioni opposte della sinistra, dell’Italia e del mondo: perché dovrebbero forzatamente convivere nello stesso partito?

 

E’ vero, come dice Franceschini, che la Democrazia cristiana fu capace di tenere insieme Leoluca Orlando e il suo contrario, ma a parte che qui si fa dell’antiquariato 5.0, come è andata a finire? La Dc che storicamente ha promosso interesse particolare e interesse generale, che aveva una visione e una grande politica, è quella di De Gasperi, di Segni, di Fanfani. Dal grande e tormentato Aldo Moro, Brigate Rosse assassine a parte, giù giù fino a Andreotti eterno e vaticano, alla fine è stata una rovina. O mi sbaglio? Io la metterei così, per non farla tanto lunga e palloccolosa: sinistra riformista e trasversale, sinistra tradizionale stile vecchia guardia, due ragioni, due cuori e due partiti. Lo stesso a ben vedere vale per la destra: Berlusconi vuole sempre (sempre?) tenere tutto insieme (tutto?), ma pare si stia convincendo che deve fare la sua strada di popolare e liberale europeo, lasciando ai giullari del trumpismo alla milanese e alla genovese (il riferimento è volutamente gastronomico, di viscere si tratta) di fare la loro. Poi si vede. C’è sempre tempo, in un clima di neo-vetero-proporzionale, di stabilire alleanze fra diversi. Ma diversi, senza troppi incomprensibili patemi d’animo.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.