Tutte le ambiguità contenute nella legge sulle fake news

Daniele Scalea

Cosa dice il testo del disegno di legge al Senato, che dimostra quanto sia insidioso distinguere il vero dal falso e sanzionare chi diffonde bufale su internet

Il disegno di legge S. 2688 sulla “prevenzione della manipolazione dell'informazione online” presenta aspetti quanto meno controversi. Innanzi tutto c'è un peccato di base, quello di sovrastimare il peso delle “fake news” su internet e adeguarsi alla narrativa della presunta “post-verità”. Ma i firmatari (Adele Gambaro, Riccardo Mazzoni, Sergio Divina, Francesco Maria Giro) si spingono concettualmente oltre, giudicando “peggio ancora” delle bufale le “opinioni che […] rischiano di apparire più come fatti conclamati che come idee”. Bontà loro, i quattro senatori giudicano queste opinioni “legittime”, ma è comunque un campanello d'allarme che, in un documento ufficiale, le opinioni siano accostate alle fake news – tra l'altro in una proposta di punire queste ultime come reato. Non meno problematici i richiami ai contenuti “considerati falsi” che misteriosi “selettori software” dovrebbero rimuovere. I senatori sembrano rendersi conto di quanto sia spesso insidioso distinguere tra vero e falso, laddove lamentano che “notizie relative a fatti eclatanti, anche di cronaca, sono state considerate ‘fake news’ con conseguenti ritardi dei relativi interventi”, ma non pare che tale consapevolezza si traduca in una riflessione autocritica sulla propria tesi.

 

Un altro punto dolente è relativo alla distinzione che si fa tra giornalisti professionisti e semplici cittadini. La normativa proposta si applica solo a questi ultimi, ma non tanto perché si ritenga che la prima categoria sia già sottoposta a leggi equivalenti, bensì perché traspare la convinzione che i giornalisti professionisti siano in fondo immuni dal pericolo di diffondere bufale – cosa che cozza con l'esperienza fattuale. Ma se da un lato il ddl discrimina tra giornalisti professionisti e comuni cittadini, prevedendo per questi ultimi norme e pene ad hoc, dall'altro estende a siti e blog non professionali tutta una serie di incombenze e regolamenti propri delle testate giornalistiche – dalla registrazione in tribunale al dovere di rettifica. Il ddl dà dunque messaggi contraddittori, da un lato discriminando i non professionisti nei diritti ma dall'altro equiparandoli ai professionisti nei doveri.

 

Le concrete proposte normative sono sfortunatamente degne di tali premesse confuse. Si comincia con l'art. 656 c.p., quello sulla diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, che è duplicato in un bis dedicato esplicitamente all'utilizzo di mezzi elettronici/telematici. Curiosamente l'ammenda massima è inasprita, da 309 euro a 5 mila, ma nel contempo si elimina un discrimine fondamentale. L'art. 656 configura il reato solo qualora “possa essere turbato l'ordine pubblico”, mentre il proposto bis elimina tale discrimine.

 

Ma è ancora poco rispetto alla seconda proposta del ddl. L'aggiunta di un bis e di un ter all'art. 265 c.p. andrebbe a punire con la carcerazione la diffusione di “voci o notizie false, esagerate o tendenziose che possano destare pubblico allarme” o “recare nocumento agli interessi pubblici” o “fuorviare settori dell'opinione pubblica”. Il punto è che l'attuale art. 265 è quello sul “disfattismo politico”, che punisce la diffusione delle suddette voci o notizie false, esagerate e tendenziose ma “in tempo di guerra”. I proponenti vorrebbero insomma traslare in tempo di pace una norma pensata per il tempo di guerra. Così il “menomare la resistenza della nazione di fronte al nemico” è trasformato, nella casistica più grave pensata dai proponenti (con pena detentiva non inferiore ai due anni), in “minare il processo democratico, anche a fini politici”. Una formulazione tanto ambigua che, pensando ai richiami fatti in fase di presentazione all'ascesa dei movimenti populisti, sembra possa includere un fine legittimo come il voler vincere le elezioni.

 

L'ultima importante disposizione del ddl è quella di rendere i gestori delle piattaforme informatiche una sorta di sceriffi del web. Essi non solo potranno, ma anzi avranno il dovere di monitorare costantemente i contenuti pubblicati dagli utenti, e avranno il diritto/dovere di cancellarli prontamente laddove “ne stabiliscono la non attendibilità”. Con tale norma la decisione di ciò che è vero e ciò che è falso si sposterebbe da uno strumento istituzionale, costituzionalmente regolato, quali sono i tribunali, a privati sui quali non vi è alcun controllo democratico. Non solo si incoraggiano, ma anzi si rendono obbligatorie ed estremizzate (non più la semplice indicazione di “controversia” ma la cancellazione d'autorità) mosse come quella di Facebook sul controllo dei propri contenuti. Un controllo che appare privo di qualsiasi garanzia di scientificità e neutralità.

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