Walter Veltroni, primo congresso Pd (foto LaPresse)

Il teorico del Pd, Salvati, ci spiega perché quel Pd potrebbe non esserci più

David Allegranti

L’economia, il referendum, il governo, le elezioni. “La situazione è dura, non sono ottimista”. Una guida al 2017

Roma. “Guardi, la situazione è molto brutta. Sia che si vada ad elezioni alla scadenza della legislatura, sia che si vada prima, il rischio che non si formi un governo o che si tratti di un governo debole è molto elevato. E con esso, il rischio di pesanti ripercussioni economiche e sociali. Ieri Tabellini ci ha spiegato sul Sole 24 ore perché questi rischi sono elevati nel caso di elezioni alla scadenza naturale. Ma non sarebbero minori anche se si votasse prima. La Spagna ha potuto permettersi il lusso di tre elezioni di fila senza gravi ripercussioni economiche. Ma per il mutamento della situazione internazionale e la maggiore gravità della nostra situazione economica questo lusso noi non possiamo permettercelo. E non vedo vie d’uscita”. Michele Salvati, economista, politologo, ispiratore del Partito democratico (un Pd che forse non esiste più), pensa che non nascerà nulla di buono dal combinato disposto della crisi di Matteo Renzi e dal nuovo orizzonte proporzionalista in cui siamo ripiombati.

 

Dice al Foglio: “La strategia con cui Renzi aveva iniziato, e con cui era partito in quarta quando c’era il patto del Nazareno, era diversa. Ma la botta del 4 dicembre è stata così forte che adesso deve capire come riposizionarsi. Lunedì, con la direzione del Pd, capiremo meglio. Intanto penso che ci terremo, più o meno, questo sistema elettorale. Non credo che ci saranno grandi cambiamenti e credo che le manipolazioni in Parlamento saranno impossibili. Quindi se le cose vanno come sembra stiano andando dopo le elezioni politiche potrebbe nascere un governo tra Renzi e Berlusconi, cosa che nessuno dei due vorrà ammettere oggi. Ora la situazione è di grandissima incertezza, tutti vogliono le mani libere e nessuno vuol tirare fuori le carte ed esporsi prima di un eventuale riscontro elettorale. In ogni caso, se ci sarà la possibilità di fare un governo, questo dovrà nascere solo grazie a un accordo post-elettorale”.

 

Un accordo, magari, con la sinistra-sinistra? Giuliano Pisapia lancia il suo Campo Progressista, ma mette molti paletti sulle alleanze. Lei che ne pensa, professore? “Ho stima di Pisapia, è stato bravissimo a Milano ed è una persona positiva. Però i paletti che ha posto non verso Berlusconi ma addirittura verso Alfano sono un problema. Lui dice che partecipa all’alleanza a condizione che in coalizione – al Senato naturalmente – ci siano soltanto il Pd e il mondo della sinistra. Ma così è probabile che non si formi una maggioranza dopo le elezioni”. Tutta colpa di Renzi, professore?  “Adesso trovo futile attribuire colpe. I partiti e gli intellettuali che hanno organizzato la campagna del no al referendum, per quanto ce l’avessero con Renzi, non potevano non sapere che saremmo precipitati in una situazione tanto pericolosa. Naturalmente il giudizio di colpa può essere ribaltato: se Renzi non fosse stato così avventato in una materia così delicata, la situazione sarebbe ora molto diversa. Le responsabilità sono condivise, ora trovo futile recriminare. Il dato di fatto è che la situazione è davvero molto pericolosa e non si vedono facili vie d’uscita”.

 

La sconfitta del 4 dicembre ha abbattuto il progetto del Pd renziano, che “era basato su due pilastri. Il primo era tattico-strategico, l’altro programmatico. Il pilastro tattico era basato sull’idea che l’era dei grandi partiti ideologici di massa partiti precedenti era finita e che quindi ci si doveva rivolgere a un elettorato confuso, con la forza di una proposta che era insieme di linea e di leadership; il personalismo era incorporato nella situazione in cui si trovano oggi i partiti, che sono partiti di leader come gran parte dei politologi sostengono. Per questo Renzi aveva preso una linea semi-populistica, che può essere giocata anche in un grande partito tradizionale, e non c’entra nulla con l’avventurismo alla Grillo. L’altro pilastro era la costruzione del partito più spostato verso il centro – subito battezzato dai critici come Partito della Nazione – un partito che potesse avere sponde anche in cittadini che in precedenza avevano voltato anche per la destra liberale. Entrambe queste intuizioni, però, si sono rivelate precarie e la ‘vocazione maggioritaria’ non si è realizzata”.

 

Se avesse mantenuto il patto del Nazareno, si sarebbe trovato così solo? “Non lo so, la storia non si fa con i se. Certamente, se fosse rimasta l’alleanza con Berlusconi, Renzi non avrebbe fatto una riforma costituzionale come quella che ha fatto, affidando tutte le sue carte alla legge elettorale e al ballottaggio; ci avrebbe messo dentro la sfiducia costruttiva e la possibilità per il presidente del Consiglio di sciogliere il Parlamento. Renzi però ha rotto il patto – così dice Berlusconi – sperando che le cose andassero a suo favore”. Ora Renzi non dà più le carte e la sinistra agita lo spettro della scissione. “La legge elettorale che risulta dall’intervento della Consulta facilita le cose per le forze scissioniste e in genere i partiti piccoli che possono sperare di passare una soglia di sbarramento relativamente bassa. Non così al Senato, dove la soglia è alta per i partiti che non si coalizzano. Allora ritorniamo al problema delle coalizioni, di cui abbiamo già parlato. “Proprio così: una coalizione spostata a sinistra può essere insufficiente e una spostata al centro è fortemente avversata dal partito. E soprattutto da coloro che vogliono farla finita con Renzi. Vedremo come se la caverà lunedì in direzione. Non ho consigli da dare e non è mio mestiere darne”. Alla fine della discussione, essendo il professor Salvati l’uomo che nel 2005 scrisse proprio su questo giornale il primo possibile manifesto per un Partito democrtico italiano, la domanda è d’obbligo. Professore: ma con la sconfitta al referendum è morto il Pd renziano o è morto proprio il progetto del Pd? Salvati risponde con prudenza, ma il senso del suo ragionamento è chiaro: “In Italia oggi il riformismo è poco sexy, c’è poco da fare, è costruire un partito aperto verso il centro è oggettivamente un’impresa titanica”. Forse impossibile.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.