Virginia Raggi (foto LaPresse)

Virginia Raggi può fare un gran regalo all'Italia anti populista: resistere

Claudio Cerasa

L’inadeguatezza politica è fuori discussione, ma il sindaco di Roma ha avuto il merito di mostrare al paese che cosa significa avere un governo a cinque stelle e che cos’è la democrazia diretta (da qualcun altro)

Negli ultimi giorni, lo avrete notato anche voi, osservatori di ogni tipo, con una indulgenza dolce e a tratti commovente, hanno descritto la storia di Virginia Raggi utilizzando la chiave del frutto acerbo cresciuto misteriosamente su un albero altrimenti in salute, come se fosse il simbolo di un’esperienza sfortunata di un movimento che nonostante tutto è ancora espressione di una missione salvifica per il paese. Senso del discorso: ohibò, insomma, ma questa qui che c’entra con un movimento puro e onesto che altro fine non ha nella vita se non quello di portare un po’ di pulizia in questo zozzo e orrendo mondo della politica? Non vorremmo svegliare dal morbido torpore di questi giorni gli editorialisti e i conduttori televisivi che si sono specializzati nell’assolvere i grillini e nello sperimentare nei confronti del Movimento 5 stelle una forma di garantismo più penoso che peloso che (purtroppo) non ha precedenti nella storia della nostra Repubblica, ma il dettaglio che forse sfugge a molti è il seguente: Virginia Raggi non è un incidente di percorso del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi è il Movimento 5 stelle. Alla base del tono assolutorio con cui si osserva il disastro di Virginia Raggi a Roma (in 210 giorni non è riuscita ancora a nominare neppure il suo capo di gabinetto) vi è la convinzione che il problema dell’utopia grillina sia non il suo essere l’epifenomeno di una clamorosa truffa politica ma bensì solo la sua applicazione al governo e magari “il tradimento dei suoi valori originali”. Ci permettiamo di dissentire. E di spiegarvi perché ci auguriamo di cuore che Raggi, se vuole fare un regalo al paese, deve restare sindaco di Roma per più tempo possibile. 

 

 

Quello che ci racconta il film di Virginia Raggi a Roma è che coloro che si spacciano per portavoce del popolo e che tentano di raccontare che la stella polare del proprio cammino è solo e soltanto la parola onestà, alla fine sono destinati a gettare giù la maschera e a mostrare il proprio volto. La politica dell’onestà, se fosse necessario ribadirlo, non è altro che un’espressione vuota che nasconde un principio ben delineato: Piercamillo Davigo ci insegna che non esistono innocenti ma esistono solo colpevoli non ancora scoperti e allo stesso modo chi guida la macchina del potere grillino non può che considerare il mondo che lo circonda come corrotto fino a prova contraria. Per questo, la politica dell’onestà, da un lato, coincide con la politica dell’immobilismo (no allo stadio, no alle Olimpiadi, no alle grandi opere) ma dall’altro coincide anche con un problema più importante, che riguarda il dna del Movimento 5 stelle. L’affermazione del principio che per fare politica sia necessario non avere curriculum e non avere esperienza per evitare di essere un potenziale corrotto apre la porta a un principio pericoloso: la sottomissione della politica. Virginia Raggi, da questo punto di vista, è un esempio perfetto: un politico inconsistente sarà inevitabilmente manovrato da qualcun altro, e a poco a poco commissariato, e il principio della democrazia diretta non fa che alimentare questo particolare genere di cortocircuito. In pochi mesi, il sindaco Raggi ha dimostrato cosa significa essere il portavoce dell’onestà. Significa non avere margini di manovra ed essere teleguidata, di volta in volta, da un blog solo al comando, da un’azienda privata, da uno studio legale, da un gruppo di quattro amici al bar legato a interessi non chiari e specializzato nel fare ricche polizze all’insaputa dei beneficiari.

 

In un’analisi dal titolo “Corruzione e disuguaglianza: come i populisti ingannano il popolo”, un rapporto molto amato dai grillini, firmato Transparency, ha raccontato qualche giorno fa la ragione per cui bisogna guardare con preoccupazione all’avanzata in tutto il mondo dei movimenti che si autoproclamano fustigatori delle élite corrotte: “I partiti anti establishment – come riportato su questo giornale dal nostro Luciano Capone – falliscono miseramente, e spesso aumentano significativamente, la corruzione di cui dicono di volersi sbarazzare”. In pratica, se la corruzione è una delle cause della crescita dei partiti populisti, l’affermazione dei populisti è una causa della crescita della corruzione e accanto ai leader populisti come Erdogan, Orbán, Chávez e Maduro, il rapporto cita anche, in negativo, l’esempio di Virginia Raggi. La retorica dell’onestà, da questo punto di vista, è come una prigione che da un lato alimenta un modo pessimo di governare (le città si amministrano con l’efficienza, non con il moralismo, e spesso il moralismo, quando diventa simbolo dell’immobilismo, è il modo peggiore per alimentare un regime di efficienza) e che dall’altro porta acqua allo stesso mulino destinato a schiacciare il sindaco di Roma: il cortocircuito mediatico, il giustizialismo, la gogna che colpisce qualsiasi politico indagato. L’inadeguatezza politica di Virginia Raggi è fuori discussione ma proprio per questo chi sogna un paese libero dai populismi non può che augurasi che il sindaco di Roma tenga duro.

 

In soli sette mesi Raggi ha fatto quello che non è riuscito né a Renzi né a Berlusconi né a nessun altro leader moderato: mettere a nudo la fuffa grillina. Raggi, in estrema sintesi, ha avuto il merito di (a) mostrare all’Italia cosa significhi avere un governo a cinque stelle; (b) esplicitare cosa significhi far diventare sindaco anche chi non ha mai amministrato neppure un condominio; (c) spiegarci che minchiata sia la democrazia diretta che di solito si trasforma velocemente in una democrazia diretta da qualcuno nascosto dietro un computer; (d) mettere in luce la truffa costituzionale del Movimento 5 stelle; (e) evidenziare con che modi sobri combattono tra loro le correnti dei grillini; (f) certificare che l’uomo che si vuole candidare a guidare il paese con i colori del movimento non sa leggere neppure una mail; (g) esplicitare il fatto che l’altro uomo che si vuole candidare a guidare il paese funziona meglio da scrittore che da politico (Dibba, ma che stai a dì?); (h) farci ricordare che come sempre aveva ragione Benedetto Croce quando diceva cosa si nasconde dietro la retorica degli onesti. “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa della onestà nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese”. Altro che dimissioni: a Virginia Raggi andrebbe fatto un monumento. Forza Virginia, resisti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.